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Anarchia e solidarietà nel Mediterraneo

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Anarchia e solidarietà, nel Mediterraneo centrale, sono concetti che si intrecciano, particolarmente in situazioni di crisi umanitaria come quella che si sta verificando con i flussi migratori marittimi. Prima di parlare della mia visione di donna soccorritrice, vorrei chiarire questi termini nel loro contesto del Mediterraneo centrale. Quanto mi appresto a dire si potrebbe probabilmente estendere anche ad altre rotte o altri luoghi, ma preferisco parlare sulla base della mia esperienza diretta e su quanto ho personalmente visto e vissuto.Per solidarietà intendo l’atto concreto di sostegno e aiuto agli altri nel momento del bisogno. Nel Mediterraneo centrale, le ragioni per cui migliaia di persone rischiano la vita cercando di attraversare il mare in condizioni drammatiche sono tanto diverse, quanto legittime: fuggire dalla violenza, dalla povertà, da qualsiasi tipo di persecuzione che si manifesti nei loro paesi d’origine. Cercare una vita migliore o il semplice fatto di poter esercitare una libertà di movimento sono diritti che vengono totalmente negati da parte di coloro che vivono in altre realtà e difendono i propri privilegi, nella paura di perdere il proprio potere. Ho una visione molto impegnata, e ritengo che la lotta per la libertà e la giustizia sociale siano intrecciate in modo indissolubile con la necessità di offrire sostegno a coloro che, per svariati motivi, sono stati costretti a vivere una situazione di vulnerabilità e disperazione.Il Mediterraneo centrale non è solo un territorio di separazione geografica, un mare tra le terre, ma rappresenta uno spazio vivo, dove le vite umane si incontrano e si perdono; dove gli stati e i confini artificiali mostrano tutta la loro brutale e crudele realtà, perpetuando la disuguaglianza e l’ingiustizia sociale, di classe, di genere e di ogni altro tipo di identità. La lotta deve mirare a sfidare questi sistemi nel concreto, a dimostrare che la solidarietà è molto più di una parola: è reale e può essere sentita, toccata, vissuta e creata.Inoltre, come dice il testo di una canzone di un gruppo spagnolo chiamato Habeas Corpus: «Bisogna chiamare le cose con il loro nome», recuperare le parole, riconoscere la forza che posseggono e che si cerca sempre di pervertire per distorcerle, cambiarne il significato, in modo che i muri che il fascismo vuole continuare a costruire appaiano in tutta la loro crudele drammaticità e vengano abbattuti.Questa macchina di distruzione sociale ha una grande presenza nel Mediterraneo centrale. Per me, la cosa più grave che si sta verificando è il processo in atto di privazione dell’identità individuale di quelle persone che, a causa di circostanze avverse, si trovano, loro malgrado, a far parte di quel grande collettivo eterogeneo che va sotto il nome di migranti. Sono persone in movimento, costrette a fuggire, a migrare, spinte ad abbandonare le loro vite verso luoghi ignoti.La vera forza della parola, in questo caso, è data dal fatto che ogni persona, la cui vita è in pericolo in mare, diventa un persona naufraga e chi è naufrago ha diritto di essere aiutato, salvato. È qui che entra in gioco tutto l’ampio, preciso e chiaro apparato giuridico degli accordi e delle convenzioni internazionali sul salvataggio delle vite in mare sottoscritti da molti Paesi: la UNCLOS, la Convenzione SOLAS, la Convenzione SAR, la IAMSAR, l’IMO, che definiscono le linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare. Chi comanda una imbarcazione, quando avvista una persona dispersa o in pericolo in mare, è tenuto a prestare assistenza il più rapidamente possibile, senza mettere in pericolo se stesso o l’equipaggio (mi sembra importante segnalare qui, con questo piccolo inciso, che, mentre in inglese è neutro, sia in spagnolo che in italiano il termine «comandante» viene reso con la forma maschile, perché è risaputo che i comandanti donna non esistono).In questa situazione è da evidenziare come Malta costituisca un esempio particolarmente negativo nella pratica dei soccorsi, nonostante gli obblighi imposti dalla legislazione internazionale in materia: non ha sottoscritto gli emendamenti del 2004, non fornisce un porto sicuro ai migranti e inoltre non rispetta l’obbligo di soccorso in mare nell’area di competenza, contravvenendo alla legge del mare e a ogni dettato etico. Questo non vuole essere un implicito invito a dare credibilità e giustificazione alle leggi vigenti, né ritenere che non si possano cambiare, combattere o abrogare. Il fatto che una legge sia una legge non significa che sia necessariamente giusta. La mia intenzione è quella di denunciare e dimostrare come coloro che fanno le leggi, impongono le regole e costringono con la forza al loro rispetto sono i primi a non rispettarle, a voltare le spalle e a cercare mille scappatoie quando quanto viene previsto non è in linea con i loro interessi o con le loro strategie politiche. Qui non c’è spazio per l’interpretazione. Ogni singolo criterio è ben stabilito e chiaro, probabilmente per ovviare alle ingiustizie commesse in passato. Quello che trovo curioso è che ci sia stato bisogno di un gruppo di persone che si sono riunite per stabilire che ogni persona merita di essere salvata e portata in una terra sicura dove sarà curata. Il fatto che sia necessario legiferare che le persone devono essere salvate dall’annegamento dimostra quanta poca umanità, quanto poco rispetto per la vita e quanta poca coscienza collettiva ci sia.Ma cosa succede quando spogliamo la parola «naufrago» della sua forza primordiale ed enfatizziamo invece la parola «migrante» con tutte le sue lettere? Le mie viscere si ribellano quando penso all’intenzione malvagia che sta dietro a tutta questa pantomima: negare la realtà di migliaia di persone, chiudere gli occhi davanti alla tragedia e rubare la loro identità, negare la loro esistenza, calpestare i loro diritti operando sulla base del privilegio e infine spiegare paternalisticamente la loro morte. Giustificare il loro omicidio. Come diretta conseguenza di tutto questo, si ha la mancata attivazione del sistema di ricerca e soccorso. Gli stati competenti, nella loro area di responsabilità, sono obbligati dal diritto internazionale - ciò dovrebbe costituire anche un dovere morale - ad avviare le operazioni di ricerca e salvataggio il più rapidamente possibile. Quanto sta accadendo negli ultimi mesi dimostra con assoluta evidenza la volontà, da parte delle autorità preposte, di sottrarsi agli obblighi di soccorso. Ad esempio, vediamo come siano centinaia i casi in cui Malta ha omesso di prestare assistenza ordinando addirittura alle navi mercantili di non prestare soccorso e di continuare la loro rotta, il che oltre a essere inumano appare anche incredibile, viste le implicazioni che derivano se consideriamo che secondo le norme internazionali è il capitano il responsabile ultimo delle conseguenze che possano verificarsi in caso di omissione di assistenza. Il naufragio di Cutro – in cui, per motivi ancora poco chiari, anche se appaiono via via sempre più evidenti, non è stata attivata l’operazione di salvataggio, cosa che ha provocato l’agonia e la morte di decine di persone annegate, i cui corpi sospinti dalle onde, hanno raggiunto le coste italiane – ha trovato larga eco nei media, attirando una grande attenzione da parte dell’opinione pubblica. Sembra quasi che quando invece i corpi non raggiungono la terraferma e rimangono in fondo al mare non meritino tanta attenzione pubblica e mediatica.Altro esempio, il naufragio di Pyros, dove non solo non è stata data comunicazione della gravità della situazione, che avrebbe potuto e dovuto attivare una grande operazione di soccorso, ma a seguito delle prove e delle analisi forensi si è dimostrato invece come la guardia costiera greca abbia effettuato manovre estremamente pericolose, agendo in modo irresponsabile e cercando poi giustificazioni attraverso dichiarazioni assolutamente contraddittorie.Se non c’è soccorso, non ci sono naufraghi, e se non ci sono naufraghi, non c’è bisogno di prestare loro soccorso. E quindi non c’è la necessità di un porto sicuro in cui farli sbarcare. Se la parola «naufraghi» viene eliminata dal contesto marittimo di cui stiamo parlando ed essi vengono descritti solo ed esclusivamente come «migranti», con l’aggiunta di una connotazione peggiorativa, magari «clandestini», vengono privati dello stesso valore umano delle altre persone, di uno status che invece non dovrebbe nemmeno essere messo in discussione. Non si deve permettere di stravolgere il vero significato delle parole. Troppi i simboli in gioco, le dichiarazioni, bandiere ostentate (per chi le vuole…), le parole d’ordine utilizzate per manipolare, per conquistare consenso, per nascondere la tragica realtà. Il dramma delle morti in mare viene utilizzato ciclicamente per la ricerca di consenso politico: non possiamo permettere che tutto questo accada. È in questo contesto che il salvataggio dei migranti naufraghi non solo è un atto umanitario, ma è anche un atto politico, che sfida le politiche migratorie restrittive e le campagne di odio. È un atto con il quale si mettono in pratica i valori dell’uguaglianza e dell’aiuto reciproco.Non si tratta solo di salvare persone che rivendicano l’elementare diritto di continuare a vivere, di non essere cancellate, quasi non fossero mai esistite. Si tratta di proteggerle con la presenza, denunciando qualsiasi violazione dei diritti umani in alto mare; di essere testimoni diretti dei rimpatri immediati effettuati dalle milizie in uniforme, sovvenzionate dall’Unione Europea; di essere testimoni della violenza fisica esercitata su persone che già fuggono da un passato di cui la maggior parte di loro non potrà mai liberarsi, perché sempre presente come un incubo nella mente.Ancora, di essere testimoni della connivenza degli stati europei con quelle stesse cosiddette guardie costiere libiche, dell’esistenza di una polizia di frontiera che spende milioni di euro per sorvegliare dal cielo – nel Mediterraneo centrale – frontiere ancora più diffuse, dove la possibilità di vita delle persone dipende dalla rapidità con cui si segnalano le loro coordinate e dalla rapidità con cui arrivano le imbarcazioni della guardia di finanza italiana per riportarle in quell’inferno in terra che è la Libia.

Il solo fatto di restare lì a navigare è una dichiarazione di intenti, di non essere più d’accordo con le versioni date o con la loro mancanza, di non voler più godere di privilegi esclusivi, di essere disposti ad andare, a vedere, ad ascoltare, a sentire, a toccare e a denunciare.Il fallimento del sistema di accoglienza europeo e mancanza di volontà di cambiarlo è ciò che ha portato alla nascita di tante organizzazioni che operano in mare, che cercano di colmare, in vari modi questo vuoto, questo bisogno non soddisfatto. Anche se la responsabilità diretta non dovrebbe ricadere su cittadini e cittadine e dovrebbe essere assunta dall’Unione Europea, con un sistema di ricerca e salvataggio efficace e professionale, questo dimostra la capacità di autogestione, organizzazione e solidarietà inter-organizzativa che si è sviluppata negli ultimi anni. Non c’è niente di nuovo sotto il sole, manca la volontà, la volontà di riconoscere che tutte le persone hanno gli stessi diritti.È ovvio che le prospettive individuali variano in modo diverso e che non tutte le persone nelle ONG hanno una filosofia anarchica. Tuttavia, nel bel mezzo di una crisi umanitaria come questa, la solidarietà e l’impegno per i principi di giustizia sociale possono essere una potente forza di cambiamento per tentare di promuovere una visione di un mondo più inclusivo e combattivo. Occorre riconoscere l’interconnessione di tutte le persone ed essere consapevoli che tutti hanno la responsabilità di aiuto e sostegno reciproco nei momenti di bisogno. È necessario quindi continuare a lottare per la giustizia sociale e contro le politiche migratorie oppressive che perpetuano le tragedie.

Lavorare nella ricerca e nel soccorso non è così bello come può sembrare. È duro, difficile, richiede una preparazione e un addestramento costanti, ti distrugge a livello psicologico, anche se passi il tempo a cercare di prepararti. Si è venuta a creare una visione romantica della realtà delle operazioni di ricerca e di soccorso, quasi che i soccorritori siano persone privilegiate che possono trascorrere il loro tempo andando sulle barche a salvare vite umane, si perpetua una visione, da neocolonialismo del XXI secolo, secondo cui sono importanti solo i valori ideali che tengono saldi i principi del soccorritore, che però non è il vero protagonista del dramma. Sono sempre stata una persona molto critica e con una mia visione delle ONG. Non credo nella meritocrazia, ma nell’organizzazione, nella preparazione e nel fatto che in questo contesto salvare vite in alto mare richiede molte conoscenze. Gli ideali politici non sono sufficienti se non sono accompagnati da competenze e conoscenze che hanno un impatto diretto sulla vita e sulla morte delle persone, ma le competenze e le conoscenze devono essere accompagnate e guidate dai valori umanitari. Questo non è, né dovrebbe essere, un luogo di ostentazione dell’ego, di promozione del proprio io o dell’organizzazione a cui si appartiene, ma un luogo in cui un sostegno reciproco organizzato e consapevole è in grado di fare ciò che è meglio per le persone che hanno bisogno di aiuto. Per restare umani in un mondo disumanizzato. L’evoluzione che ho visto, lavorando in prima linea a bordo delle navi umanitarie nel Mediterraneo centrale dal 2016 al 2023, è terrificante, non in termini di necessità di salvataggio delle persone, ma in termini di aumento esponenziale degli ostacoli legali e amministrativi, di manipolazioni mediatiche, di diffamazioni diffuse che hanno il solo e unico scopo di infangare, di impedire alle ONG di operare. Ma il vero bersaglio, le vere vittime di questo attacco capitalista sono i migranti che non sono ancora naufraghi ma che, vista l’impassibilità e l’inerzia di questa Europa antiquata e stantia, rischiano di diventarlo, con tutto ciò che ne consegue.In questi quasi 8 anni ho visto così tante migliaia di volti che mi addolora non poterli ricordare tutti. Ho sentito tante storie che non sono mai state raccontate, perché non è stato permesso di parlare a chi voleva raccontare, o perché è stata data voce a persone come me, che possono trasmettere il messaggio ma non farlo mai proprio. Sono anche consapevole delle difficoltà che ho dovuto affrontare e subire in questo mondo come donna soccorritrice, come donna di mare, come donna in una posizione di responsabilità e di vedere come la mia parola fosse meno ascoltata e considerata se non alzavo la voce, in un mondo storicamente maschile come quello marittimo e del soccorso in mare. Ho imparato a dimostrare le cose quando era il momento giusto di farlo e non quando mi veniva chiesto per vedere se ne ero capace. Ho più pazienza della maggior parte dei miei colleghi, anche se qualche maschio fragile ha cercato di farmi sembrare isterica per aver alzato la voce sostenendo le mie ragioni. E poiché so, come donna, cosa si prova quando qualcuno ha un privilegio rispetto a te a causa di qualcosa che non ha altra giustificazione se non il caso e lo usa contro di te, come un mero esercizio simbolico di potere, io non farò mai lo stesso con chi ha meno privilegi di me.Purtroppo il mondo è pieno di persone con storie da raccontare, di voci da ascoltare. Lasciate che vi raccontino le loro storie con la loro voce, non permettete che sia negato a nessuno il diritto di parlare, il diritto di lottare per la propria vita.Continuerò la mia battaglia fino a quando, guarita dalle conseguenze della scelta di aver fatto questo lavoro, sarò pronta ad aiutare ancora – se sarò in grado di farlo – ma soprattutto a riprendere ad accompagnare. A presto.