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Violenza e nonviolenza

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Alla ricerca di una definizione

Cosa dobbiamo intendere per violenza? Si può convenire sul fatto che la violenza è una «alterazione del corso naturale degli eventi, quando ne derivi distruzione e sofferenza» (Jervis 1998). Alterazione non casuale, ma volontaria: perché un’azione causa di un danno possa essere qualificata come violenta, è necessario che sia il frutto di una deliberata intenzione di provocare un’offesa da parte di colui che l’ha posta in essere. D’altro canto, invece, non è sempre vero che la violenza si esercita contro la volontà di chi la subisce: può darsi il caso di chi, ad esempio, esercita volontariamente la violenza contro se stesso (Stoppino 1991: 1221). Il campo semantico della parola violenza si è andato espandendo nel corso del tempo, per includere oggi, insieme a quelle fisiche, anche le forme di violenza psicologica, per certi aspetti più difficili da individuare e classificare. Ecco, allora, che la violenza può essere definita come «l’abuso della forza (rappresentata anche da sole parole o da sevizie morali, minacce, ricatti), come mezzo di costrizione, di oppressione, per obbligare cioè gli altri ad agire o cedere contro la propria volontà» (voce violenza dell’Enciclopedia on line della Treccani).Quale che sia la definizione più corretta del termine, da un punto di vista libertario pare fondamentale osservare che – eccezion fatta forse per la violenza autoinflitta – il concetto di violenza rimanda a quello di coercizione: a un antonimo, cioè, della parola libertà.

Il paradosso della violenza politica

Sul piano politico, vale la pena rilevare il seguente paradosso. Ogni struttura politico-sociale ha sempre assunto tra i suoi fini primari quello di assicurare la pacifica convivenza dei suoi membri, di minimizzare i conflitti e la violenza tra i privati, scongiurandone, in particolare, la manifestazione più estrema, la guerra civile: l’«anarchia», secondo uno dei significati dispregiativi attributi a questa parola fino ad oggi, a partire dagli antichi greci (Canfora 2013: 5). Guerra civile che, per centinaia di anni, è stata pensata e presentata, appunto, come l’effetto inevitabile dell’assenza di una forte e riconosciuta autorità politica. Tuttavia, per pervenire a questo scopo – la pace sociale –, la medesima struttura politico-sociale si investe, o viene investita, della titolarità del monopolio legittimo della forza, perciò anche della violenza. Proprio questo monopolio ha sempre determinato, di fatto, una serie più o meno rilevante di abusi e violenze da parte dei detentori del potere costituito, che devono essere ritenuti, considerata l’imperfezione della natura umana e dei sistemi politici conseguentemente creati dagli uomini, un cascato in certa misura inevitabile dell’esistenza e dell’esercizio del potere stesso, come, tra gli altri, osservò Montesquieu: «è una esperienza eterna che qualunque uomo che ha un certo potere è portato ad abusarne; va avanti finché non trova limiti» (Montesquieu 1997: 309). Di qui l’attenzione costantemente rivolta nei secoli, in specie nella cultura occidentale che, più di altre, ha assegnato un valore crescente al diritto alla vita e alla libertà, al tema della costituzionalizzazione e limitazione del potere politico. Di qui, pure, la teorizzazione esplicita, a partire dall’età antica, in forme nonviolente o violente, del diritto di resistenza – sino a contemplare esplicitamente il tirannicidio (Turchetti 2001) – all’esercizio dispotico del potere, vale a dire al dispiegamento di una forza coercitiva e violenta, oltre e contro il diritto, strumento principe di regolazione razionale e funzionale del potere, cioè della violenza legittima e socialmente accettabile. A questo proposito, con riferimento temporale anche a tempi assai recenti, pare tuttavia corretto distinguere in maniera abbastanza netta tra ordine interno e ordine (o disordine) internazionale, giacché i sistemi politici sono stati costruiti sulla dicotomia tra amico e nemico e sulla tendenziale disumanizzazione del secondo, cosa che ha spesso portato gli stessi critici dell’abuso dell’autorità nei confronti della comunità politica verso cui la sovranità è esercitata, a legittimare un grado di violenza e coercizione maggiore nei confronti dell’altro da sé, dello straniero, come dimostrano, in particolare, la storia moderna e contemporanea degli Stati nazionali, del complesso fenomeno della colonizzazione e dell’imperialismo.

Inoltre, la crescente capacità di controllo dei cittadini da parte del potere politico, resa possibile dall’eccezionale sviluppo dell’organizzazione politica, economica, amministrativa e tecnologica della società verificatosi negli ultimi secoli, ha accresciuto enormemente la capacità offensiva degli Stati nei riguardi dei cittadini. Non a caso, dunque, il secolo trascorso, teatro di genocidi e stermini di massa operati dagli Stati, spesso perpetrati verso parte dei propri stessi cittadini, è stato definito quello della «massima violenza dello Stato sull’uomo» (Grossman 1996: 222) o dello «Stato criminale» (Ternon 1997). Il secolo in cui la violenza è stata non solo praticata, ma anche esaltata come mai, prima, nella storia era stato fatto: «esasperazione patriottica, romanticismo rivoluzionario, “fardello dell’uomo bianco”, affermazione del superuomo al di là del bene e del male, riflessioni soreliane sulla violenza, terrore giacobino, fascista, bolscevico eccetera» (Caffi 1995: 64-65).Per tutte queste ragioni, Rummel ha osservato che «più il potere è concentrato nelle mani di un governo, più potrà agire arbitrariamente in base ai capricci e ai desideri delle élites dominanti, più questo governo tenderà a fare la guerra agli altri governi e più ucciderà i propri sudditi e quelli stranieri. Più limitato è il potere di un governo, più il potere è frammentato, controllato e bilanciato, meno risulterà aggressivo verso l’esterno e meno potrà commettere un democidio» (Rummel 2005: 3-4).

Anarchismo e violenza

Nel corso della storia, a più riprese, da angolature diverse, il pensiero politico e le dottrine religiose, nella loro quasi totalità, hanno giustificato la violenza del potere politico e delle autorità ecclesiastiche – includendo guerre, conquiste, stragi, assassini legali, persecuzioni etc. – come mezzi in alcune circostanze utili e necessari, per quanto eticamente riprovevoli, per conseguire determinati scopi, considerati superiori. Di più: è stato osservato come la violenza, che ha avuto un «enorme ruolo negli affari umani», è stata raramente fatta oggetto di analisi specifica e approfondita, in quanto data per naturale, inevitabile o necessaria (Arendt 2002: 11). Così, per scegliere un esempio tra i molti, la tortura giudiziaria è stata lungamente considerata uno strumento legittimo per acquisire la confessione degli indiziati, un elemento ritenuto necessario per emettere una condanna di colpevolezza (Fiorelli 1953-54). Sino all’età moderna, tuttavia, la dimensione morale e quella politica sono state generalmente concepite in maniera correlata e la violenza, pertanto, è stata pensata all’interno di questa cornice. Lo svelamento del dramma della politica e, in un certo senso, della «nudità» del potere, la consapevolezza che la sfera politica è dotata di caratteristiche e fini suoi propri, che sono distinti e potenzialmente in conflitto con quelli della morale, è emersa in età moderna e nello specifico con la riflessione di Machiavelli, il quale come noto ha affermato crudamente che l’azione politica deve essere valutata in virtù dell’efficacia nel conseguire i suoi obiettivi, la conquista e il mantenimento del potere, e non può essere parametrata sulla base di altri criteri, come quello della bontà/malvagità, che sono caratteristici della sfera morale (Machiavelli 1995: 102-120). Un genere nuovo di violenza – e di teorizzazione della violenza – si è sviluppato con la nascita delle ideologie moderne, in specie quelle legate a dottrine politiche che hanno postulato la trasformazione radicale della società – quando non il cambiamento dello stesso statuto ontologico dell’umanità. Così se per Rousseau il legislatore istitutore di una nuova civiltà deve sentirsi in grado di cambiare la natura umana, dato che tutto dipende dalla politica (Rousseau 1994: 115; 1997: 398), per Robespierre «il governo rivoluzionario (…) ai nemici del popolo deve dare solamente la morte», giacché la sua forza risiede tanto nella virtù, quanto «nel terrore»: nella virtù, «senza la quale il terrore è cosa funesta»; nel terrore, «senza il quale la virtù è impotente» e la rivoluzione non è altrimenti in grado di «domare (…) i nemici della libertà» (Robespierre 1992: 145, 169). A partire dalla Rivoluzione francese sono emerse dottrine politiche di ispirazione prevalentemente autoritaria – ma anche libertaria, democratica e repubblicana – che hanno inteso legittimare una specifica forma di violenza – quella, appunto, ideologico-rivoluzionaria – volta a scardinare l’ordine politico esistente, a porre fine a una condizione di ingiustizia sociale e di mancanza di libertà ritenuta intollerabile e a istaurare un nuovo ordinamento politico, sociale ed economico, fondato su valori diversi, se non opposti, a quelli vigenti. In questa tradizione di pensiero e di azione, in gran parte, con diversi accenti, favorevole alla violenza politica (Adamo 2004: 12) si è sviluppato l’anarchismo, che tuttavia, nell’immaginario popolare, è stato ed è quasi universalmente associato a, se non totalmente indentificato con, la violenza: in una maniera che non pare improprio definire approssimativa e semplicistica. Quanto questo pregiudizio sia erroneamente fondato lo si ricava da numerosi aspetti. Anzitutto perché l’anarchismo, in senso filosofico e storico, è stato ed è un insieme eterogeneo di correnti di pensiero e movimenti o raggruppamenti politici, culturali e sociali tra loro differenti – e, in alcuni casi, scarsamente o per nulla comunicanti tra di loro – che, rispetto alla violenza, legata o meno a una dimensione rivoluzionaria e/o insurrezionale, hanno elaborato posizioni diverse, se non opposte. Tra i grandi classici dell’anarchismo va annoverato Tolstoj, fautore della non-violenza e figura di riferimento importante per Gandhi, a sua volta pensatore e attivista vicino, per molti riguardi, a una prospettiva socialista-libertaria. Che il primo teorico dell’anarchismo sia stato un pensatore incline al pedagogismo come William Godwin, che concepiva la trasformazione sociale come l’effetto di una grande opera educativa non coercitiva degli uomini, non può essere considerato un caso.Il fatto è che, sotto un profilo teorico e ideale, l’anarchia – definibile con approssimazione come una struttura sociale o comunitaria di liberi ed eguali, fondata sull’autogestione politica ed economica dei suoi membri – è stata da sempre pensata dagli anarchici, di ogni tendenza – collettivista o individualista; organizzatrice o anti-organizzatrice; favorevole o meno alla violenza come metodo legittimo di lotta politica – come l’opposto della coercizione e del dominio dell’uomo sull’uomo: come l’opposto, appunto, della violenza. O, meglio ancora, come l’opposto della più rilevante forma di violenza, quella sistematicamente perpetrata dallo Stato, dall’autorità politica, dalle classi dominanti. Così Malatesta, fino all’ultimo, sia pure con un senso di criticità crescente, legato alla teoria e pratica dell’insurrezionalismo rivoluzionario – nonché al suo mito – puntualizzò lucidamente che la società a cui aspirano i libertari è «uno stato sociale in cui la concordia e l’amore sieno possibili tra gli uomini». Ad avviso di Malatesta, quella che lui definiva la «violenza liberatrice» esercitata dagli anarchici doveva perciò essere intesa come una triste necessità dettata dalle avverse circostante storiche. «Anarchia vuol dire non-violenza, non dominio dell’uomo sull’uomo, non imposizione per forza della volontà di uno o di più su quella degli altri». Con grande acume, Malatesta, che pure riconosceva nel conflitto tra le classi sociali e le minoranze agenti un elemento decisivo e fondamentale della storia umana, osservava anche che, «malgrado le inenarrabili sofferenze e umiliazioni inflitte (…) quello che realmente predomina nella convivenza umana, o che almeno ne forma l’elemento vitale e progressivo, è il sentimento di simpatia, il senso di comune umanità che, nelle condizioni normali, mette alla lotta un limite oltre il quale non si può andare senza eccitare una ripugnanza profonda e una generale riprovazione» (Malatesta 1975: I, 61; II, 191; III, 106).Appare tuttavia innegabile che i pensatori anarchici e soprattutto parte considerevole dell’anarchismo storico, di matrice europea, abbia intrattenuto con la violenza, di massa o individuale, un rapporto complesso, sofferto, in taluni casi ambiguo, in altri simbiotico. Lo spettro delle posizioni e delle azioni è talmente ampio e diversificato che è impossibile anche solo riassumerlo in questa sede.

Significativo e istruttivo, per la ricostruzione storica della relazione tra anarchismo e violenza, il rapporto – temporalmente assai breve, ma simbolicamente alquanto denso di significati e per molti aspetti emblematicamente rivelatore – tra Bakunin e Nečaev, vero precorritore del terrorismo di Stato bolscevico e, non a caso, figura carissima, per questo ed altri riguardi, a Lenin (Strada 2018: 31-39). Michael Confino ha dedicato a questo capitolo uno studio esemplare, che se da un lato scagiona Bakunin dall’accusa di essere l’autore e l’ispiratore teorico del Catechismo del rivoluzionario, testo nel quale si legittima e prefigura lo sterminio fisico di interi gruppi umani sulla base dell’appartenenza di classe (Confino 1976; in particolare 30-43 per la distanza ideologica tra i due; sulla quale aveva già richiamato l’attenzione Venturi 1972: 310-311), dall’altro evidenzia come il fondatore del movimento anarchico sia stato sinceramente e ingenuamente attirato dalla devozione fanatica di Nečaev per l’azione rivoluzionaria e per il proposito, da lui condiviso e come tale chiaramente definito, di «distruzione totale del mondo statalista-legalitario e di tutta la cosiddetta civiltà borghese» (Bakunin a Nečaev, citato in Confino 1976: 137).Si dà il caso, tuttavia, che, nell’anarchismo di matrice socialista divenuto, in specifici contesti, un movimento politicamente rilevante, la violenza politica è stata considerata perlopiù come un metodo di lotta imposto dal potere politico e dalle classi dominanti, che sarebbe scomparso immediatamente dopo l’abbattimento del potere politico ed economico e che, in ogni caso, costituiva solo un tassello, per quanto ineludibile, verso la trasformazione libertaria della società. Così, nel maggio del 1936, alla vigilia del levantamiento di Francisco Franco iniziatore della guerra civile spagnola, nel cui contesto maturò l’esperienza della rivoluzione, la C.N.T. adottava nel congresso di Saragozza una risoluzione secondo la quale la rivoluzione stessa non doveva essere intesa come «un episodio violento, per mezzo del quale si distrugge il regime capitalista. Essa in realtà non è altro che il fenomeno che lascia il passo di fatto a uno stato di cose che, fin da molto tempo prima, ha preso corpo nella coscienza collettiva» (cit. in Peirats 1976: 174). I cenetisti, insomma, intendevano la rivoluzione come un processo di lungo periodo, che comportava una trasformazione dell’immaginario istituito attraverso la propaganda, l’auto-organizzazione degli oppressi, le lotte sociali e che solo alla fine si sarebbe estrinsecata in un atto violento di abbattimento del sistema, grazie al quale il «mondo nuovo» covato nei decenni precedenti si sarebbe, infine, dischiuso alla luce.Nel secondo dopoguerra, dopo la sconfitta del nazifascismo, si è assistito a una progressiva perdita di incidenza dell’anarchismo nei paesi in cui aveva svolto un ruolo politico e sociale significativo tra la fine del XIX e i primi decenni del XX secolo. Nel periodo compreso tra gli anni ’60 e ’80 del Novecento si è sviluppata una nuova forma di anarchismo, che si è intersecata, non senza problemi, con quella residuale preesistente: un anarchismo legato in parte significativa alle lotte studentesche e a inedite forme di contestazione del potere, in ambito politico, culturale, sociale ed economico. La ripresa della violenza politica, teorizzata e praticata da alcune formazioni dell’estrema sinistra sino a sfociare nel terrorismo, da un lato, lo sviluppo di una forte coscienza pacifista in parte significativa dell’opinione pubblica occidentale, dall’altro, ha portato anche all’interno del movimento anarchico a una ripresa del dibattito sull’uso legittimo della violenza, che è risultato condizionato e arricchito da elementi nuovi: l’esperienza dei totalitarismi, le cocenti sconfitte del movimento rivoluzionario di ispirazione libertaria, lo sviluppo delle democrazie liberali ad economia capitalista, il benessere socio-economico, la perdita di centralità politica del movimento operaio, la crisi dell’idea tradizionale di rivoluzione, l’emergenza ecologica, il femminismo etc.

Dall’analisi alla riflessione: considerazioni sul presente, sul passato e sul futuro

Oggi, una riflessione sulla violenza in ambito libertario non può prescindere dalle analisi sviluppate negli ultimi decenni e dalle lezioni della storia. Occorre ripensare la questione a partire dalla distinzione tra il piano teorico e quello pratico, tra l’ambito dei principi e dei valori e l’ambito della tattica e della strategia politica, perché se è vero che l’anarchismo, come il marxismo sotto questo profilo, non è una filosofia contemplatrice del mondo, ma una «filosofia della prassi», sorta per trasformarlo radicalmente, diversamente da questo, tuttavia, ha sempre postulato una stretta correlazione tra i mezzi utilizzati e i fini perseguiti e proprio per tale motivo – il motivo che significativamente è stato all’origine della rottura dei rapporti tra Bakunin e Nečaev, accusato dal primo di «machiavellismo», cioè di aver separato l’azione rivoluzionaria dai suoi principi etico-politici ispiratori – non ha potuto e non può che considerare criminale e insensata l’idea, espressa per esempio da Lenin in Stato e rivoluzione, che a una pacifica società senza governo si possa giungere attraverso una pedagogia totalitaria fondata sul dispiegamento di una inaudita violenza statale destinata a durare «un’intera epoca storica»: a parole «senza violenza e sottomissione»; di fatto, attraverso una esplicita «disciplina di “fabbrica”» estesa a tutta la società (Lenin 1975: 294, 308).
Sul piano teorico, da un punto di vista libertario, l’analisi della questione della liceità della violenza in ambito politico necessita di essere affrontata in maniera chiara, ma difficilmente può dar luogo a un punto di vista univoco e assoluto. Lo stesso pensiero di Gandhi evidenzia la difficoltà di concepire in senso categorico il problema della violenza. Il grande pensatore e attivista indiano, infatti, ostile perfino a una guerra contro il nazismo – «se vi potesse mai essere una guerra giustificabile in nome dell’umanità, una guerra contro la Germania per impedire l’assurda persecuzione di un’intera razza sarebbe pienamente giustificata»: ma nessuna guerra è giustificabile in questo senso (Gandhi 1973: 254) – ammetteva, però, l’eutanasia e l’uccisione di animali (72-73). Va tenuto presente il fatto che i valori ultimi – per esempio la libertà, l’uguaglianza, la giustizia sociale, la pace etc. – sono in misura considerevole antinomici. È pertanto difficile, se non impossibile, pensare a una loro compresenza, se non nel senso di una loro coesistenza relativa. Inoltre, l’esperienza storica ha reso evidente come molto spesso gli individui e i gruppi sociali si sono trovati nella spiacevole circostanza di operare delle scelte esclusive tra questi valori, sulla base di una scala assiologica di preferenza. L’anarchismo, ad esempio, postula la priorità del valore della libertà sugli altri (Bertolo 2017: 89-90). In ultima istanza, dunque, l’anarchismo considera il valore della libertà più importante della stessa vita: da ciò ne discende logicamente la superiorità dell’ideale della libertà rispetto a quello della pace (Berti 2012: 368-371). Ciò permette, quantomeno, di definire un limite e di aprire uno spazio alla pensabilità della violenza, all’interno di determinate coordinate, difficili a definirsi in via astratta e preventiva. Tutto sembra indurre, però, a pensare tali limiti in senso decisamente restrittivo. Da un punto di vista generale, per esempio, difficile non concordare con la Arendt laddove osserva che «dato che il fine dell’azione umana (…) non può mai essere previsto in modo attendibile, i mezzi usati per raggiungere degli obiettivi politici risultano più importanti, per il mondo futuro, degli obiettivi perseguiti». Nel caso della violenza, dunque, quale che sia il fine perseguito, esso «corre il pericolo di venire sopraffatto dai mezzi che esso giustifica per raggiungerlo» (Arendt 2002: 6).La violenza non è un mezzo «neutro», se mai ce ne possa essere uno. Essa racchiude in se stessa delle potenzialità altamente liberticide, essendo fondata sul principio della coercizione. Perciò, «se la violenza può trovare giustificazione quando è l’unico mezzo per resistere o reagire alla ben maggiore violenza del potere e dello sfruttamento, essa però contiene in sé i germi di un nuovo dominio ed è dunque essenziale ricorrervi solo se strettamente necessario» (Co- dello 2009 2: 155). Ma cosa è da intendersi per «strettamente necessario»?
Prendendo in considerazione la violenza come metodo di lotta utilizzato da singoli individui o piccoli gruppi, è facile constatare come «quasi mai gli attentati e i gesti violenti» sono riusciti a scalfire «il dominio degli stati e delle istituzioni» (Codello 2009 1: 26). Più articolato deve essere il giudizio sulla violenza operata da grandi movimenti e posta in essere con l’obiettivo di provocare un sommovimento rivoluzionario. La «lezione» dei due più importanti esperimenti rivoluzionari a cui ha dato vita l’anarchismo, la machnovščina e l’autogestione operaia e contadina di parte della Spagna sotto il controllo delle forze repubblicane durante la guerra civile, evidenzia tuttavia i paradossi e le contraddizioni insite nel rapporto tra libertarismo e violenza. Le brevi estati dell’anarchia ucraina e spagnola sono sorte infatti grazie alla violenza, e specificamente alla più terribile di tutte le guerre, la guerra civile: curiosamente e per certi aspetti perversamente, l’«anarchia» nell’accezione comune di caos guerreggiato tra fazioni rivali è stata levatrice dei prodromi della «vera» anarchia degli anarchici, cioè di un ordine privo di violenza, in quanto organizzato senza l’autorità. Questa fondazione si è rivelata tuttavia del tutto effimera, sia perché ne ha condizionato molto negativamente lo svolgimento, sia perché ne ha causato, da ultimo, l’infausto esito. Per vincere la guerra, infatti – quella esterna contro le forze contro-rivoluzionarie e quella interna contro i comunisti autoritari – gli anarchici avrebbero probabilmente dovuto esercitare una violenza maggiore e organizzarsi in un senso ancora più militarizzato: violenza e militarismo che si erano peraltro già concretizzate nella creazione di due eserciti, in un controllo militare del territorio e, nel caso della C.N.T., nella partecipazione a un governo rivoluzionario insieme ad altre forze fedeli alla repubblica. Così, Cipriano Mera, eroe anarchico di Guadalajara, chiedeva nel marzo del 1937 una disciplina militare «ferrea» per vincere la guerra e Nestor Machno fu indotto a elaborare nel 1921, dopo una grave sconfitta militare patita dalle forze bolsceviche, il progetto di una dittatura del lavoro che costituisce l’abbozzo della Piattaforma organizzativa di stampo autoritario elaborata dal leader anarchico nell’infelice esilio francese dopo la capitolazione delle forze al suo comando (Peirats 2: 159; Shubin 2012: 181). Le diverse ma significative recenti esperienze libertarie sviluppatesi in Messico per opera dell’esercito zapatista e nel Rojava grazie all’impulso e alla direzione del Partito dell’Unione Democratica, presentano alcune analogie con i casi summenzionati – due territori in cui l’organizzazione in senso libertario e mutualista della società è stato reso possibile dalla liberazione attuata da milizie popolari armate – e possono perciò costituire un’ulteriore, interessante, fonte di riflessione riguardo all’utilizzo e all’organizzazione della violenza in rapporto alla creazione di una società più libera e più giusta.

Scriveva Camus: «Dobbiamo allora ritrovare in noi stessi, nel cuore della nostra esperienza, cioè all’interno del pensiero della rivolta, i valori di cui abbiamo bisogno (…), dobbiamo studiare la contraddizione in cui si è dibattuto il pensiero della rivolta, tra nichilismo e aspirazione a un ordine vitale, e superarla grazie a quello che ha di positivo» (Camus 1998: 37). La storia procede per tentativi ed errori ed è pertanto fondamentale tenere in debito conto l’esperienza storica al fine di non reiterare gli errori del passato. Al di là degli esempi sovraesposti, riferiti a condizioni di grave crisi politica, illiberali o scarsamente democratiche, pare opportuno sottolineare il fatto che l’utilizzo della violenza politica comunque intesa, da un punto di vista libertario, appare in generale riprovevole sotto il profilo etico e politicamente assai controproducente in contesti, come quelli delle democrazie liberali, in cui sono costituzionalmente sancite e generalmente rispettate la libertà di espressione e organizzazione. La lotta nonviolenta ha il grande vantaggio per i libertari di mantenere una correlazione stretta tra mezzi e fini, correlazione che viene incrinata, se non spezzata, dall’utilizzo della violenza. È un fatto facilmente constatabile che le azioni violente, quali che siano le intenzioni di chi le compie, sono altamente nocive per la causa anarchica, in quanto contribuiscono a rafforzare nei cittadini l’idea che l’anarchia coincida con la violenza, con una condizione assimilabile alla guerra civile. E come potrebbero pensare diversamente, questi cittadini, se coloro che sostengono che anarchia significa nonviolenza, sono quegli stessi che cercano di raggiungerla attraverso la strada della violenza? L’anarchismo è un progetto che già nel nome porta in primo piano l’elemento «negativo», di critica radicale di gran parte dell’esistito e dell’esistente (si legga, a proposito, Bertolo 2017: 93). Non occorre insistere troppo su questo aspetto. Vale forse la pena, piuttosto, di provare ad adottare un’ottica prevalentemente costruttiva dell’anarchia, che è già dentro la tradizione libertaria (si veda da ultimo Senta 2023). Questa prospettiva sprona alla valorizzazione degli elementi di libertà e di mutuo appoggio presenti nella società, qui ed ora, invita a interrogarli criticamente, moltiplicarli e coordinarli, escludendo o mettendo da parte il passaggio obbligato per la rivoluzione così come è stata intesa per decenni, cioè una specifica forma di guerra civile, che assume i connotati della guerra di classe e che si concreta in un processo violento.Se i semi di libertà vogliono costituire davvero una prefigurazione, tale prefigurazione deve contenere in nuce le caratteristiche del mondo di libertà e non-coercizione annunciato dalla dottrina anarchica. Riflettiamo sul monito di Tolstoj: «gli anarchici hanno ragione su tutto: sul negare l’ordine esistente e sull’asserire che, in assenza di autorità, non ci sarebbe una violenza superiore a quella esercitata dall’autorità. Si sbagliano solo nel ritenere che l’anarchia possa essere istituita attraverso una rivoluzione violenta» (Tolstoj 2019: 187).Lavoriamo, dunque, per fare uscire finalmente gli uomini dallo stato «ipnotico» in cui sembrano immersi (Tolstoj 2003: 43).