Letture della prefigurazione
Coerentemente con l’idea di fondo che ispira questa rivista proponiamo ancora alcune letture che possono rappresentare stimoli e suggestioni interessanti per i nostri lettori. Lo scorso numero abbiamo suggerito il libro di John Clark (edito da elèuthera) che ci ha presentato una prospettiva sperimentale e una visione libertaria della società. In particolare ricordo ai nostri lettori e a quanti hanno voluto leggerlo che Clark ci ha raccontato di esperienze di democrazia diretta e di relazioni libertarie in India e in Sri Lanka (oltre al Rojava e al Chiapas). Per sviluppare ulteriormente queste conoscenze asiatiche (in particolare dell’India) ecco il libro di Catia Dini, Al servizio del cosmo (EMI, Bologna, 1998), che ci presenta delle esperienze di autogestione nei villaggi indiani secondo lo spirito di Gandhi. Dini ci fa riflettere su come il modello di sviluppo occidentale abbia provocato in pochi decenni danni ambientali irreparabili e vistose lacerazioni sociali in tutto il pianeta. Gandhi aveva invece individuato, già all’inizio del secolo scorso, un modello alternativo fondato su uno sviluppo rurale con epicentro il villaggio indiano, attraverso l’impiego di appropriate tecnologie alternative e un modello particolare di produzione egualitaria, il decentramento economico fondato sulla centralità artigianale, una distribuzione caratteristica di relazioni più consapevoli e autogestite. Ma soprattutto tutto questo legato a una distribuzione condivisa e partecipata della ricchezza in armonia coerente con l’etica, la cultura, la religione, l’educazione e l’amicizia in ambito famigliare e sociale, caratteristiche del contesto indiano. Il libro traccia insomma una panoramica significativa della realtà indiana che non appare nelle descrizioni ufficiali dei governi e degli enti internazionali ma proprio per questo si dimostra veramente interessante e utile.
ONG e società civile implementano e realizzano micro-imprese, associazioni di credito e di risparmio, cooperative, movimenti rurali e urbani, che vanno nella direzione per noi interessante, seppure con le contraddizioni che possiamo immaginare, di creare e sperimentare qui e ora un modo diverso e più autentico di vivere i principi libertari. Nel libro si affrontano anche le problematiche che inevitabilmente emergono quando si opera concretamente in senso antiautoritario e partecipato, all’interno di uno stato che si regge, come tutti gli stati, su altri presupposti e altre relazioni. Interessanti sono inoltre le parti del testo che ci rappresentano la condizione femminile e quella del sistema educativo, l’organizzazione del sistema sanitario e la gestione delle foreste e dell’agricoltura biologica, la funzione delle banche e la gestione del credito in modo diverso da quello ufficiale. Insomma un testo che può aiutarci a capire meglio sia in positivo che nelle contraddizioni ciò che significa agire altrimenti con uno sguardo obliquo rispetto a quello del potere.Spostandoci decisamente di contesto, ma sostanzialmente rimanendo nel campo delle sperimentazioni, è opportuno leggere il libro di James Horrox, Le mouvement des kibboutz et l’anarchie. Une révolution vivante (éditions de l’éclat, 2018) sfortunatamente non tradotto in italiano (edizione originale: A Living Revolution. Anarchism in the Kibbutz Movement, AK Press, Oakland, 2009). Horrox ci ricorda che il movimento dei Kibbutz prende forma in Palestina sotto la dominazione ottomana a partire dal 1910 per diventare, a suo giudizio, una delle esperienze di vita comunitaria e di progresso sociale più interessanti del XX secolo in contesto occidentale. L’autore ricostruisce l’origine di questo movimento anche nelle sue forme ispiratrici riconducendolo alle idee di Kropotkin e Landauer intorno alle quali si orientò una parte consistente dei pionieri che sono stati i protagonisti di questa sperimentazione di stampo libertario. Il progetto del Kibbutz infatti si lega non solo a una voglia di vivere in modo comunitario la propria vita, ma soprattutto a un’idea più ampia di trasformazione sociale caratterizzata in senso libertario.
Dopo averci raccontato le origini e gli anni d’oro di questo movimento, Horrox ci rappresenta anche il declino dell’aspetto più rivoluzionario, facendolo risalire a partire dagli anni Ottanta, in cui si determina una trasformazione di alcune caratteristiche più innovative sul piano delle relazioni sociali di stampo egualitario in una realtà più marcatamente di stampo capitalistico. L’autore, nell’ultima parte del testo, fa emergere però un vento nuovo che attraversa alcune di queste esperienze. Una nuova alba dell’originale struttura comunitaria sta emergendo, non senza evidenti difficoltà, all’inizio del nuovo secolo a testimonianza, come sostiene Horrox, di una singolare vitalità di questa terra così martoriata dal dolore e dalle contraddizioni. L’autore nell’ultimo capitolo dà conto sia in termini di pensiero che di quantità e qualità di un rinascente, seppur minoritario, movimento di giovani che si identificano in una storia di comunitarismo libertario e dei rapporti che essi intrattengono con il pur flebile movimento anarchico israeliano. Per chi volesse approfondire il rapporto tra anarchismo ed ebraismo suggerisco, tra l’altro, la lettura del bel volume curato da Amedeo Bertolo, L’anarchico e l’ebreo. Storia di un incontro, (elèuthera, Milano, 2001). Facendo un passo indietro nella storia di un pensiero anarchico prefigurativo, consiglio la lettura del testo di Paul Reclus, Plus loin que la politique, (Héros-Limite, Genève, 2020). Paul, ingegnere e professore, nipote di Elisée Reclus, nasce nel 1858 e muore nel 1941. Nonostante il momento storico, ancora caratterizzato da un anarchismo classico e tradizionale, con acume e lungimiranza affronta l’idea prefigurativa con accorta sensibilità, senza cadere nell’utopismo inconcludente e senza cedere a tentazioni strettamente istituzionali e stataliste. Considerando la Politica come tecnica di gestione del dominio, Paul Reclus si propone, in questi scritti scelti qui raccolti, di suggerire un’organizzazione della vita sociale a livello comunale e federalista caratterizzata in senso libertario. Affronta infatti i diversi aspetti dell’organizzazione comunale – agricoltura, industria, insegnamento, trasporti, giustizia, fiscalità, ecc. – con un approccio alternativo a quello proprio dello Stato. Cerca insomma di suggerire concretamente come si potrebbe realizzare una organizzazione comunale libertaria in una prospettiva federalista e confederalista. Si tratta di creare, a sua convinzione, un nuovo modello di organizzazione fondata su principi come il mutuo appoggio, la solidarietà, la cooperazione in un quadro di riferimento decisamente libertario e condiviso. Si tratta di scritti che ovviamente si riferiscono alle condizioni reali di un’epoca novecentesca e che non possono tener conto di quanto oggi la situazione sia per molti aspetti decisamente cambiata, ma il suo approccio è marcato da un metodo e da una professionalità che evita di scivolare in una prospettiva immaginativa di carattere astrattamente utopico. Questo fatto rende questi articoli, pubblicati nella rivista «Plus loin» tra l’aprile del 1925 e il maggio del 1939, utili e attuali ancora oggi per chi scelga di approfondire e di caratterizzare il suo pensiero libertario in una prospettiva propositiva e prefigurativa. Questi temi che in questi (e altri) libri hanno trovato spazio dovrebbero essere letti con l’aiuto prezioso di alcune riflessioni decisamente importanti contenute nel volume di Murray Bookchin, Dall’urbanizzazione alle città (elèuthera, Milano, 2023), appena editato in lingua italiana. Testo corposo, documentato, ricco di spunti e di riflessioni: un’opera ricchissima finalmente fruibile ai lettori italiani. Bookchin ricostruisce in modo originale la storia dello sviluppo urbano dimostrando, con esempi e importante documentazione, come le città non siano sempre state quelle che noi viviamo oggi, caratterizzate per la loro funzionalità in termini capitalistici e di consumo individuale. Le città sono nate e state piuttosto lo spazio e il luogo della convivenza, del confronto, dello scambio, insomma della democrazia diretta. Prima dell’avvento delle megalopoli la vita dei cittadini si caratterizzava più nel senso del mutualismo che in quello della competizione, riproducendo uno schema relazionale mutuato dai sistemi ambientali, dagli ecosistemi. Seguendo questa chiave interpretativa, Bookchin rivendica il diritto (dovere etico) per il popolo libero delle città di riappropriarsi del loro status di uomini e donne libere, vero corpo vivente della democrazia, al fine di contrastare quel concetto di cittadinanza proprio di un sistema burocratico e statalista, capitalista e consumista, che si è invece imposto nel tempo. I cittadini sono stati progressivamente trasformati in elettori e in clienti, venendo così deprivati degli spazi e dei modi che caratterizzano una vera democrazia diretta e solidale. Per intraprendere questa strada di emancipazione e di riscoperta del senso profondo e vero di cittadinanza è necessario, secondo Bookchin, re-inventare un nuovo municipalismo libertario consapevole della sua storia, ricca di esempi e di esperienze significative nel passato e nel presente. Solo questa strada potrà riportare la «politica» alle sue origini nobili e corrette: non più arte di governo (dei pochi sui molti) in mano a professionisti e burocrati del potere, ma effettiva pratica di autodeterminazione quotidiana dei cittadini. Insomma, un libro da leggere e su cui discutere in ambito ampio e condiviso per poter affrontare le sfide odierne in una prospettiva, appunto, propositiva e prefigurativa.