Contenuti

Conversazione con elèuthera

Contenuti

La storia di elèuthera – che inizia alla metà degli anni Ottanta – è anche la storia di un gruppo libertario che passa da una militanza politica a una dimensione più culturale (tra virgolette). Che cosa ha determinato questo passaggio e quindi l’inizio delle attività della casa editrice?

Intanto va precisato che il gruppo era dichiaratamente anarchico e con una pratica di militanza quotidiana molto comune all’epoca (anni Sessanta e Settanta). Il progetto editoriale che prende le mosse nel 1986 per iniziativa di due membri di quel gruppo (per inciso, Bandiera Nera) nasce invece su altre basi: ad aprire i battenti è una casa editrice – se vogliamo usare questo termine un po’ pomposo – libertaria e non strettamente anarchica, a prescindere dalle granitiche convinzioni dei suoi fondatori. Non è una questione puramente terminologica, o di semplice cosmesi per apparire meno terrificanti agli occhi di un pubblico generico… Tutt’altro, è la consapevole scelta di aprirsi – da anarchici – a quanti, pur non condividendo una specifica ideologia, esprimono valori, metodi e visioni profondamente libertari che li rendono ottimi compagni di strada. E di strada da fare ce n’era e ce n’è tanta. A determinare questo passaggio dall’attività prevalentemente militante all’attività prevalentemente culturale (perché ovviamente i due elementi rimangono strettamente intrecciati) sono state le mutate circostanze storiche e culturali. Dopo un ventennio socialmente e politicamente molto attivo (e pienamente novecentesco, visto con il senno di poi), ci si era infatti ritrovati, volenti o nolenti, in un’epoca in cui le modalità dell’agire sociale e politico sin lì prevalenti e lo stesso immaginario su cui poggiavano avevano perso di significato. Erano diventate pura retorica. Liturgie consolatorie ma inefficaci. Bisognava quindi trovare altre modalità operative a partire da nuove riflessioni improntate all’oggi. Detto altrimenti, il Novecento era finito e il futuro (più nebuloso che radioso) era tutto da inventare.Conversazione con elèuthera. Ci siamo allora concentrati sul presente, ed elèuthera nasce qui – in questo territorio incerto che si crea nella transizione da un’epoca all’altra – per rispondere a un’esigenza che non si placa nei vari corsi e ricorsi storici, ovvero l’esigenza di esplorare un territorio poco conosciuto per tracciare le nuove strade che portano al mutamento sociale. Perché di questo si tratta: non sarà più la rivoluzione otto-novecentesca, ma l’urgenza di cambiare il mondo resta intatta. L’idea è dunque quella di mettere insieme i tanti stimoli che vanno emergendo sia nel milieu anarchico, che non coincide più con il movimento anarchico così come si è storicamente configurato, sia in quella vasta galassia libertaria, estremamente fluida e multiforme, che tuttavia è una fucina di riflessioni e sperimentazioni contemporanee. Ed è così che nel catalogo di elèuthera entrano a pieno titolo anche temi e autori non strettamente anarchici, riconducibili a quella poliedrica cultura libertaria internazionale che – pur con tutte le sue contraddizioni – produce un pensiero antiautoritario quanto mai attuale e fecondo.

Ma perché proprio i libri?

La carta stampata ha tradizionalmente avuto un ruolo rilevante nel movimento anarchico nazionale e internazionale. Che si trattasse di periodici o di libri e opuscoli, la propaganda – come si diceva un tempo – aveva trovato nella carta stampata un mezzo privilegiato di diffusione. E questo oltretutto in tempi con alti tassi di analfabetismo. Chiaramente oggi le cose sono cambiate, ma ancora negli anni Settanta libri e giornali erano molto diffusi nel movimento anarchico. Dunque la strada verso l’editoria appariva larga e accogliente, e noi l’abbiamo imboccata volentieri. E qui per noi intendo anche le iniziative sorelle: «A rivista anarchica», «Volontà», «Interrogations», «Libertaria» e ovviamente le edizioni Antistato che hanno preceduto l’esperienza di elèuthera. Diciamo pure che il gruppo originale prima evocato, da cui tutte queste iniziative discendono, con la carta stampata ci è andato a nozze. Prima in maniera piuttosto amatoriale, poi con sempre maggiore competenza. E passione. Ci siamo dunque maggiormente concentrati su un’attività che prima è stata giustamente definita culturale tra virgolette. Qui va fatta una precisazione, perché il termine cultura ha vari significati e si presta a fraintendimenti. Nel nostro lavoro di ricerca non ci rifacciamo né alla cosiddetta cultura «alta» (quella astratta e disciplinare degli specialisti) né alla cultura «bassa» (il pop più becero spacciato per genuina cultura popolare). Il senso del nostro lavoro – da sempre improntato a un binomio che riteniamo inscindibile: pensiero/azione – rimanda piuttosto alla definizione antropologica del termine autodeterminazione e quindi autoproduzione della società, ovvero la creazione collettiva dei codici simbolici che informano la vita quotidiana di ogni cultura (il linguaggio, la gestualità, i legami sociali e parentali, i modi di nutrirsi, le espressioni artistiche…). In altri termini ci interessa il fare che diventa pensiero e il pensiero che diventa azione. E ci interessano i modi in cui una società si autoistituisce. Dunque non privilegiamo solo la critica della società del dominio (che comunque rimane un punto focale, perché è qui che ci tocca vivere), ma anche la costruzione del nuovo. Qui va introdotto il concetto di prefigurazione. Il termine è recente e di provenienza anglo-americana, ma la pratica che ci sta sotto è ben più vecchia e ampiamente diffusa nel milieu anarchico. Per esempio, in Italia nella seconda parte del Novecento il dibattito sul «vivere l’anarchia nel qui e ora» era ben presente. E le discussioni internazionali, anche aspre, sul lifestyle anarchism erano diffusissime. Comunque sia, l’argomento qui è rilevante perché elèuthera non è soltanto un’iniziativa editoriale con una ragione sociale, una partita iva, un fatturato annuo ecc. Tutto questo c’è, ma è francamente secondario, perché elèuthera – lungi dall’essere una «azienda» (per l’esattezza una cooperativa) – è un luogo di vita e lavoro in cui sperimentare concretamente la pratica anarchica. E questo non ha niente a che vedere con il fatto di pubblicare testi anarchici: ha a che vedere con le modalità (sperimentali e fallibili) con cui si prova a gestire in modo cooperativo e orizzontale un’attività che non è solo culturale ma anche economica. E questo non in una società «ideale», ma in una società reale, plasmata dal capitalismo e dallo statalismo. Una bella sfida, ma è quello che dà un senso forte al progetto.

Cambiamo canone: la nostra seconda domanda si concentra su un argomento diverso, anche se strettamente legato al discorso complessivo. Dall’inizio della vostra avventura, oltre 35 anni fa, siete distribuiti in libreria, state quindi sul mercato. Con quale risultato concreto, se è lecito trarre un bilancio di questi anni di attività? Abbiamo presente quali sono le difficoltà, i tranelli, l’incongruenza di stare dentro il sistema distributivo. Per questo ci interessa capire quali sono le difficoltà che un’esperienza libertaria concreta come elèuthera, strutturalmente antisistema, deve affrontare nella sua pratica quotidiana all’interno del sistema che rifiuta. E questo è qualcosa che sperimentano tutte le esperienze concrete attuate nel qui e ora, a cui noi come rivista intendiamo dare spazio.

La scelta di «stare sul mercato» ha segnato un importante cambio di passo tra il nuovo progetto editoriale e quello precedente: le edizioni Antistato, gestite tra il 1975 e il 1985 dalle stesse persone che hanno poi fondato elèuthera. È stata una scelta non facile perché l’idea di realizzare una «controsocietà» che stesse fuori o ai margini del circuito economico dominante per sperimentare alternative sostenibili è sempre stata un’esigenza molto forte. L’Antistato era tutto dentro questa visione, e infatti nasceva negli anni della «contestazione globale», anni in cui la protesta sociale era enormemente più vivace e creativa di oggi. Si sperimentavano costantemente forme diverse di vivere e lavorare. Certo, molte di queste sono finite nel nulla, ma di sicuro c’è stato uno sforzo collettivo per trovare alternative immediatamente praticabili. E poi è arrivato il «grande riflusso» degli anni Ottanta. Tanti gruppi si sono sciolti, tante sedi hanno chiuso, e quella voglia di leggere e discutere che aveva costituito la linfa vitale del circuito militante e che ci aveva permesso di rimanere fuori dal mercato (o quasi) svanisce… A quel punto la «scelta» diventa quasi obbligata, e infatti il nuovo progetto editoriale decide giocoforza di entrare nel circuito librario.È stata quindi una decisione pragmatica, non di principio. E lungamente meditata, perché accedere al circuito librario comporta costi notevolmente più alti e un impegno lavorativo commisurato (o sarebbe meglio dire smisurato…). Ma la scelta è stata fatta anche in vista di un’altra esigenza fortemente sentita: raggiungere un pubblico più ampio che non si limitasse ai «già convinti» ma aprisse un dialogo con i tanti che, pur restando al di fuori di ogni ideologia, rifiutano il mondo così com’è e cercano soluzioni intrinsecamente libertarie. Anche per intercettare questa vasta area libertaria e post-ideologica, non raggiungibile attraverso il circuito militante, abbiamo deciso di esporci maggiormente, di renderci più visibili e dunque di «entrare nel mercato». Però l’abbiamo fatto alle nostre condizioni, cioè rimanendo sempre con un piede dentro e un piede fuori. Una posizione scomoda, che tuttavia ci ha lasciato sempre vigili. Siamo così riusciti a trovare un nostro (precario) equilibrio. Detto altrimenti, il mercato non ci ha fagocitato, anche se noi siamo dovuti venire a patti con certe regole e certe procedure. Quel che è certo è che siamo riusciti a intercettare la galassia libertaria citata prima che di fatto costituisce lo zoccolo duro dei nostri lettori.

Fare questa scelta ha cambiato il vostro modo di lavorare?

Non lo ha tanto modificato quanto complicato. Infatti abbiamo dovuto «piegare» le esigenze esterne (per lo più amministrativo-burocratiche) al nostro modo di lavorare, che da quando esiste un collettivo redazionale – ovvero più o meno dall’inizio degli anni Duemila (prima era un collettivo di due…) – è rimasto cooperativo e orizzontale. Questo comporta che in linea di principio non ci sono mansioni esclusive ma tutti fanno tutto. In linea pratica, però, la realtà ci ha imposto alcuni adattamenti in quanto le mansioni più tecniche richiedono competenze specialistiche. Dunque, per non creare una struttura a compartimenti stagni, abbiamo accettato che alcune competenze specialistiche siano espletate singolarmente, ma i criteri con cui ogni settore è gestito vengono comunque discussi e decisi a monte da tutti. Superfluo dire che la scelta del programma editoriale, dei temi e degli autori, è evidentemente opera dell’intero collettivo redazionale.Quindi sì, essere sul mercato impone alcuni adeguamenti, ma l’essenziale del nostro lavoro cooperativo non ne viene intaccato. Anche perché poggia su due pilastri: la continua ed esplicita tensione fra efficacia ed efficienza e la modalità artigianale di produzione che è stata adottata. Molto in sintesi, per scelta e per necessità dobbiamo avere un livello di efficienza piuttosto alto per mantenere costanti i ritmi di pubblicazione e la qualità editoriale. Il timore è che questo efficientismo possa «schiacciare» l’efficacia del lavoro collettivo, che invece richiede condivisione e tempi dilatati. Da qui quella tensione che è parte integrante del nostro lavoro quotidiano: di nuovo, una posizione scomoda che però ci mantiene vigili. Quanto alla modalità artigianale, di proudhoniana memoria, è la dimensione lavorativa che ci appare più congeniale in quanto coniuga lavoro manuale e lavoro intellettuale. Perché, contrariamente a quanto si pensa, il libro non è affatto un prodotto puramente intellettuale, ma è il risultato di molteplici capacità manuali (e persino artistiche): un manufatto che dà all’artigiano che lo ha prodotto una soddisfazione assolutamente tangibile.

Quali sono i criteri con cui selezionate i titoli da pubblicare?

A parte il criterio-base, ovvero proporre in un contesto coerente le espressioni più innovative e originali della riflessione anarchica e libertaria, siamo molto pragmatici nel selezionare temi e autori. D’altronde, le ragioni per pubblicare un libro sono svariate: l’attualità di un testo, che magari risponde a una diffusa richiesta di approfondimento, per esempio, ma anche l’inattualità di un testo, che al contrario affronta temi non ancora dibattuti, anticipando argomenti che a nostro avviso lo saranno presto (qui spesso ci azzecchiamo, ma il concetto di «presto» è molto aleatorio…). Anche la difficoltà o l’accessibilità di una trattazione sono criteri che teniamo sempre presenti: l’uno non esclude l’altro, ma di certo vanno alternati. Una caratteristica «storica» del nostro catalogo è invece l’interdisciplinarietà, quel meticciamento di saperi diversi che dà adito a sguardi inusuali. Poi ci sono le cosiddette «operazioni culturali», cioè quei titoli che non hanno palesemente alcun appeal commerciale ma che pubblichiamo lo stesso perché all’interno del nostro discorso aggiungono senso e coerenza. Inutile dire che queste «operazioni» le dobbiamo purtroppo centellinare. E infine seguiamo con attenzione non solo quanto di antagonista si muove sul campo (e per ragioni non esclusivamente editoriali), ma anche il lavoro di ricerca, a livello internazionale, che tanti progetti editoriali a noi affini portano avanti nei campi più disparati.

In effetti nel catalogo elèuthera c’è una notevole percentuale di testi tradotti da varie lingue.

Sì, siamo più che convinti che una visione «nazionale» della cultura sia del tutto obsoleta, in particolare per degli internazionalisti incalliti come noi. Certo, l’attenzione al «qui» permane. Si vive e si agisce in un luogo preciso e quello che ti circonda è il tuo habitat sociale. Ma le dinamiche sociali ormai sono ormai globali e dunque è necessario seguire con attenzione ciò che avviene a livello planetario, anche per intercettare quanto di non-occidentale sta emergendo. E dunque sì, tante traduzioni, nonostante l’ulteriore sforzo in termini di editing e budget che questo comporta.

Ma questo vostro lavoro di ricerca viene generalmente riconosciuto e apprezzato o passa inosservato?

In effetti abbiamo spesso dei riscontri positivi, il che indubbiamente ci aiuta a «tenere botta». E questi apprezzamenti (non esenti da critiche) arrivano sia da parte del milieu libertario sia da parte degli «addetti ai lavori» (librai, docenti, giornalisti, lettori). In genere, non è solo il lavoro di ricerca e la qualità editoriale a essere riconosciuti ma anche il progetto «politico» che c’è dietro: ovvero riportare l’anarchismo nel dibattito culturale, politico, scientifico, etico contemporaneo. È un obiettivo che perseguiamo da tempo, ma di recente è stato inaspettatamente rafforzato dalla rilettura di Emma Goldman (abbiamo appena pubblicato una sua antologia con alcuni testi inediti in italiano). La nostra Emma (e il nostro Errico non era da meno) aveva ben chiaro a chi si rivolgeva quando scriveva articoli o teneva conferenze: lei non si rivolgeva ai fedeli e ai seguaci, ma parlava al mondo intero, e a voce alta. Nel nostro piccolo stiamo cercando di fare la stessa cosa: permettere alle voci anarchiche di risuonare forti e chiare al di fuori delle mura del ghetto (un ghetto in cui peraltro non ci hanno rinchiuso, ma in cui ci siamo rinchiusi). È ora di uscire e di parlare a voce alta come Emma. Non certo per ripetere slogan tardo novecenteschi (quando va bene, perché alcuni sono risorgimentali), ma per riprendere quel posto nell’agorà pubblica che l’anarchismo ha avuto lungamente e che deve tornare ad avere. Certo è pericoloso, si rischia di essere snaturati, travisati, fagocitati, ma è quello il luogo del logos e della praxis, ed è lì che elèuthera sta cercando di riportare l’anarchismo.

Riassumendo, ci sarebbe una doppia finalità nella strategia editoriale che portate avanti. Da un lato, l’obiettivo prefissato (e forse in parte raggiunto) è di rendere meno autoreferenziale il circuito militante permettendogli di accedere a strumenti e stimoli che vengono da mondi esterni. Dall’altro, è la società nel suo insieme che si arricchisce grazie ai dispositivi libertari che le vengono forniti da questo contesto antiautoritario. C’è dunque un effetto doppio di potenziamento.

Sì, anche se in questo gioco di influenze reciproche non è così facile «tracciare il limite». Chiaramente stiamo citando Paul Goodman e il suo monito ad avere sempre una chiara consapevolezza di dove fissare il proprio limite, ben sapendo che non può essere tracciato una volta per tutte ma va costantemente ridefinito. Posizionarsi per scelta sul limite tra dentro e fuori, tra marginalità e mainstream, richiede un’attenzione costante che ovviamente non mette a riparo da qualche scivolone. Ma l’importante è rialzarsi, darsi una spolverata e riprendere la stessa postura precaria con qualche consapevolezza in più.

Seguendo i titoli editi anno dopo anno, titoli che escono con inflessibile regolarità, si desume la crescente presenza di approcci libertari ai più diversi ambiti disciplinari, e ciò avviene anche in settori scientifici. C’è effettivamente una rinascita del pensiero anarchico o è solo un’illusione prospettica?

Negli ultimi trent’anni – complice la caduta delle principali ideologie novecentesche – l’attenzione per il pensiero anarchico è andata aumentando tante nelle scienze umane quanto nelle scienze «dure», anche se con modalità alquanto particolari. Infatti, questa evidente renaissance si colloca (spesso, non sempre) su una cesura: quella tra pensiero anarchico e movimento politico. Questa cesura ha consentito un uso teorico delle idee anarchiche – per certi versi molto fecondo – senza che questo comporti alcuna ricaduta sociale. In parole povere, critica del dominio ma senza doversi imbarcare in alcuna lotta per abbatterlo. E infatti, per marcare questa separazione tra mondo delle idee e mondo reale, è stata coniata una nuova definizione: anarchismo filosofico come pensiero estraneo all’anarchismo politico che si incarna nei movimenti sociali. Stiamo per pubblicare il libro di una filosofa francese, Catherine Malabou, che critica con grande acume questo anarchismo depoliticizzato che scinde arbitrariamente i principi e i valori anarchici dai modi dell’agire sociale. Malabou si concentra sulla filosofia contemporanea, ma il medesimo discorso è applicabile a molte altre discipline.Quindi sì, il pensiero anarchico è diventato più influente, ma in questa versione devitalizzata. Ciò detto, ci sono comunque delle ricadute positive, soprattutto in quei saperi tradizionalmente attenti all’anarchismo come l’antropologia o l’ecologia, ma anche in saperi decisamente sorprendenti come l’economia (fin qui la prateria del pensiero marxista e liberale) o la biologia. Soprattutto in quest’ultimo campo ci sono approcci estremamente innovativi che stanno riconfigurando la conoscenza scientifica con una radicale messa in discussione dei paradigmi dominanti e dell’immaginario gerarchico che li sottende. Basti pensare alla visione scientifica recentemente elaborata dal biologo Jean-Jacques Kupiec e sintetizzabile nella frase: «né dio né genoma».

A proposito di questa appropriazione «indebita» delle idee anarchiche – che in taluni casi vengono completamente stravolte, come nel caso delle pratiche di cooperazione inglobate nelle teorie del management – si può forse concordare con quanto diceva Colin Ward nell’intervista uscita sulla rivista «Libertaria». Colin ipotizzava che nel ventunesimo secolo forse gli anarchici non si chiameranno più così. Ma poco importa, perché la cosa fondamentale è che il corpo delle loro idee continui a tradursi in pratiche concrete, a prescindere da come ci si definisca. E il problema sta appunto qui, perché oggi si produce poca azione anarchica specifica, o per essere più precisi si produce poca azione tout court. È dunque un problema generale, non solo degli anarchici. Il mondo è cambiato troppo velocemente e noi non siamo riusciti ad adeguarci, per cui la società vive ancora basandosi su modelli obsoleti. Il che ci ha portato all’attuale impasse. L’idea anarchica, diciamo, non va più di pari passo con il movimento politico anarchico. È più veloce. Ed è un problema che avvertiamo come urgente ormai da tempo. Forse è un bene che l’idea anarchica vada avanti a prescindere dagli anarchici che si definiscono tali, e tuttavia per certi aspetti sta assumendo una dimensione a-storica. Ma tornando a elèuthera, a vostro avviso che cosa c’è oggi di vitale nel pensiero anarchico? Di cosa vi siete invece liberati? Cosa avete coscientemente scartato della tradizione?

Mettiamola così: noi della tradizione non abbiamo scartato nulla perché non abbiamo nessuna intenzione di cancellare il passato. Però il nostro compito è inventarci il presente, ripensare i modi di agire e di pensare adeguandoli alle circostanze storiche in cui ci troviamo a operare. Dunque non buttiamo niente della tradizione, ma la collochiamo nel posto che le compete: il passato. Un passato di cui siamo orgogliosi, ma che non va replicato, pena l’irrilevanza. Al contrario noi – come ogni nuova generazione di anarchici, direbbe Tomás Ibáñez – dobbiamo continuamente reinventare l’anarchismo che è, per definizione, sempre in divenire.

Passiamo adesso a una domanda più tecnica: quali sono i problemi quotidiani, amministrativi o finanziari, che un progetto editoriale autogestito ed egualitario, un progetto che si pone come un’alternativa concreta al modo di produrre dominante, deve affrontare per farcela? E come può essere sostenuta un’esperienza di questo genere?

Come si è detto prima, stare nel mercato porta vantaggi ma anche svantaggi, soprattutto a livello di gestione economica. Ci si deve confrontare con un mondo, a noi estraneo e urticante, che ha le sue regole e i suoi steccati. E tuttavia ci siamo accorti, andando avanti negli anni, che per mantenere vivo il progetto bisognava adempiere talune trafile burocratiche, per quanto assurde fossero per una visione libertaria della vita e del lavoro. Detto ciò, noi proviamo, come in tutti gli altri ambiti, di avere una gestione paritaria e di ragionare insieme, condividendo le scelte, soprattutto quelle problematiche. Che sono le più varie, anche perché le cose cambiano velocemente. Negli ultimi anni alcuni attori (potenti) del mercato editoriale lo hanno influenzato pesantemente, ribaltandone le regole. Questo ci ha spinti a parlare con altri editori che hanno un profilo non troppo dissimile dal nostro, e ora si sta cercando di ragionare insieme su forme alternative di gestire il mercato librario (che per inciso in Spagna e Francia esistono). C’è quindi sperimentazione e confronto tra soggetti più o meno affini che avvertono la necessità di cambiare alcuni di questi meccanismi. E la parte più positiva è che si discute a partire dal basso e non dall’alto, per una gestione molto più orizzontale dei rapporti tra i diversi soggetti della filiera del libro.Da un punto di vista strettamente economico, il ricavo sulla vendita dei libri è appena sufficiente a tenere in piedi la baracca. Nel circuito commerciale i margini sono strettissimi: del prezzo di copertina all’editore arriva solo il 40% circa, e un margine così risicato (sul quale gravano i costi di produzione, i costi di gestione, la retribuzione del lavoro e i diritti d’autore) raramente permette di «investire» in quello che vorremmo: ancora più traduzioni e da lingue «esotiche» che implicano costi più alti, tomi corposi che comporterebbero un prezzo di vendita eccessivo, titoli su argomenti interessanti ma troppo specifici per un mercato asfittico… Come dicevamo prima, elèuthera è un progetto culturale e politico, non un’impresa commerciale, ma i conti con la realtà circostante bisogna farli. Per quanto riguarda il lavoro, nei primi due decenni elèuthera si è basata esclusivamente sul lavoro volontario (o meglio sulla militanza) dei suoi fondatori, ma poi fortunatamente il progetto si è allargato e l’impegno quotidiano è stato retribuito in base alle disponibilità finanziarie (con l’eccezione della parte anziana e pensionata del collettivo che continua a svolgere gratuitamente la propria opera).Rispetto alla seconda parte della domanda, cosa si può fare per sostenere un progetto come il nostro, in effetti ci sono vari modi per aiutarci. A parte leggere i nostri libri, è importante parlarne, farli conoscere a chi magari va poco in libreria – il passaparola rimane la modalità più efficace per vendere i libri (bestseller compresi) – o addirittura promuoverli presso le librerie locali che ancora non ci conoscono. Un’altra buona pratica è far conoscere il nostro lavoro culturale e politico nei territori in cui si è attivi, non semplicemente vendendo i libri ma organizzando iniziative culturali che amplifichino i temi da noi trattati, innescando circuiti virtuosi di discussione. Sono tutte finestre sul mondo che sicuramente possono aiutare elèuthera a essere più visibile e presente. Ma c’è anche un altro modo per sostenere il nostro progetto ed è quello di mettere a disposizione le proprie competenze, che di mestiere si faccia l’avvocato o l’idraulico. Una rete solidale basata sulle competenze in realtà è sempre esistita, e forse in passato era più solida. Nondimeno, nella nostra pluridecennale esperienza questo tipo di solidarietà pratica ha resistito alle spallate dell’individualismo neoliberista ed è un aiuto concreto che ci consente di andare avanti.

Chiudiamo parlando del futuro – a quanto pare incerto – del libro. Siamo sicuri che il futuro sarà sempre più digitale e che quindi il tramonto del libro cartaceo sia un destino ineluttabile?

Diciamo che di certezze non ce ne sono, tuttavia si possono fare ipotesi, disegnare scenari più o meno probabili. Una cosa però è certa: il digitale è una realtà che ha ormai occupato molti spazi della comunicazione, delle relazioni, della propaganda, della conoscenza. In effetti, appare come un cambio di paradigma (dal materiale all’immateriale) non dissimile da quello che cinque secoli fa ha rimpiazzato la trasmissione orale con quella scritta grazie all’invenzione della stampa. Ciò detto, siamo convinti che la carta stampata non ha i giorni contati, perché ha una sua valenza specifica. A dirlo non sono quelli che sulla carta ci campano, ma schiere di educatori, medici e psicologi che si occupano delle tecniche di apprendimento e memorizzazione. Se l’informazione ridotta a news ormai passa per il digitale (e sta facendo le scarpe ai periodici tradizionali), i testi che implicano studio, concentrazione e approfondimento necessitano ancora di un supporto cartaceo. Quindi noi con la nostra saggistica hard non temiamo la concorrenza del digitale. Ma c’è un altro ragionamento da fare, che si ricollega a quanto abbiamo detto prima: noi non siamo una casa editrice e basta, siamo un progetto culturale. E dunque, chi se ne frega se il futuro sarà il cartaceo, il digitale o persino l’orale, comunque vada noi abbiamo un progetto politico e culturale da portare avanti, e se in questa contingenza storica ha assunto una data forma, nulla vieta che possa assumerne un’altra se le condizioni mutano. L’abbiamo detto prima: l’anarchismo è sempre in divenire, e noi pure.Anzi, a questo proposito vogliamo chiudere la nostra conversazione ricordando la salutare provocazione che Amedeo Bertolo (1941-2016), fondatore di elèuthera, ci lanciava ogni fine anno. Implacabilmente, quando arrivava la stagione dei bilanci, poneva a sé stesso e a noi tutti sempre le stesse domande: vale la pena continuare questa esperienza? Non ha già dato tutto quello che poteva dare e dunque è meglio chiuderla e porsi nuovi obiettivi? Non sta diventando fine a sé stessa, un’istituzione che si riproduce per inerzia? Beh, noi ogni anno continuiamo a porci le stesse domande e a riflettere su quello che stiamo facendo. Il rischio di riprodursi per inerzia, di diventare autoreferenziali, c’è sempre. Ma ci sono anche dei rimedi, e l’autodissoluzione delle avanguardie di cui René Lourau parlava molti anni fa a noi sembra una via d’uscita da tenere sempre presente.