Quadrimestrale.

Editoriale alla sezione

Editoriale n. 8

Prima di entrare nel dettaglio del numero, pare opportuno un sia pur rapido accenno a due questioni che appaiono particolarmente rilevanti, rispetto alle quali ci sentiamo di condividere con le nostre lettrici e i nostri lettori una posizione di redazione. Al momento in cui mandiamo in stampa la rivista, la tensione politica internazionale non accenna a decrescere e se apriamo i giornali o consultiamo le notizie sul web, non possiamo fare altro che essere presi dall’angoscia. Dilagano le notizie sui conflitti, ormai intrecciati in un sistema sempre più complesso di appoggi, alleanze e minacce. In questa difficile situazione, il nostro modesto apporto non può essere altro che un appello perché tutti gli scontri armati cessino al più presto.
La carenza e l’indebolimento di relazioni fondate strutturalmente sul mutuo appoggio, li vediamo e tocchiamo nel nostro mondo in vari ambiti, dal globale al locale.
Nell’ambito della politica interna, ad esempio, un tema che ci tocca sempre più da vicino è il graduale smantellamento della sanità pubblica, che sperimentiamo con sempre più lunghe liste di attese a causa della carenza di personale. I minimi investimenti nella sanità degli ultimi anni causa la fuga di moltissimi medici e infermieri al settore privato o all’estero, ma quello che più preoccupa è non vedere nessuna soluzione all’orizzonte.
Questo secondo spunto ci permette di iniziare la presentazione del numero dagli articoli dedicati al tema della medicina e della cura. In questo numero affrontiamo infatti il tema della medicina di genere e la sua recente inclusione nella medicina occidentale. Non si parla di medicina «delle donne», ma di un’apertura atta a valutare la cura dei disturbi secondo parametri più ampi, che tengano in conto che le differenze tra persone non sono solo biologiche ma anche ambientali, culturali, sociali, economiche. Il concetto della cura, ampliato al «prendersi cura di…» può essere centrale nella gestione politica delle relazioni e per modificare equilibri. La prospettiva individualista che è alla base del sistema capitalistico ha permeato la visione che abbiamo dell’altro e ci ha abituato alla delega della cura, considerando l’interdipendenza una questione di debolezza, associata all’ambito femminile (versus l’indipendenza e la forza, che identifica nell’immaginario tradizionale l’ambito maschile).
Per poter immaginare un mondo basato su diversi rapporti sentiamo la necessità di affrontare gli equilibri che si instaurano in famiglia, prima comunità nella quale impariamo a muoverci. A questo proposito, una citazione è per il film C’è ancora domani di Paola Cortellesi, che con linguaggio poetico ha portato nel mainstream una riflessione sul lungo processo (ancora in corso) di emancipazione delle donne nella società italiana, toccando temi fondamentali, come i modelli ereditati di relazione tra uomo e donna, ed esprimendo la necessità di istituire nuove relazioni famigliari basate sulla collaborazione e l’amore, invece che sulla sopraffazione. Il merito del film ci pare ovviamente non risieda nella questione del voto, quanto nel riconoscere che siamo ancora figli di quei modelli di relazione e che finché non riusciremo ad offrire nuovi modelli ai nostri figli e alle nostre figlie non possiamo sperare che scompaiano le disuguaglianze.
In questo numero affrontiamo sotto varie angolature la questione dell’essere membri di una comunità all’interno di comunità, dal micro al macro. La necessità di trasformarci in membri pienamente responsabili della nostra comunità è fondamentale per la salvaguardia della grande casa in cui viviamo, l’ambiente. Un approfondimento che definisce l’eco-anarchismo ci ricorda come le nostre intime famiglie primarie si inseriscano in comunità locali e che a loro volta si ineriscono in comunità regionali sia umane che più-che-umane (la Terra intera).
Sul rapporto con la natura e le piccole comunità, un altro film recente degno di nota è Un mondo a parte, di Antonio Albanese, che fa luce su due temi fondamentali: la sopravvivenza dei piccoli borghi periferici rispetto alle grandi città, e la scuola come cuore di una comunità. È proprio dalle piccole realtà che dobbiamo ripartire per poter aspirare a cambiare le cose. E a questo puntiamo con questa rivista, presentando, sostenendo e diffondendo esperienze che esistono nonostante tutto e dalle quali possiamo trarre spunto.
Sul ruolo che ciascuno di noi può avere nel cambiamento in senso libertario dei rapporti sociali, utili indicazioni vengono sia dall’articolo di Francesco Codello, che tratta il tema dell’anarchismo pragmatico o post-negativo, che da quello di Samuel Clarke, che descrive il funzionamento di una cittadina secondo principi libertari. Le conclusioni dell’articolo di Clarke, che apre questo numero, potrebbero essere utilizzate per un Manifesto della nostra rivista: «Se nel mondo ci sono pratiche anarchiche che esistono da più tempo del nostro inferno capitalistico, allora dobbiamo solo riaccendere quelle pratiche. Non dobbiamo necessariamente costruire una nuova utopia apparentemente aliena, dobbiamo solo incoraggiare i valori umani che precedono la nostra attuale distopia».
Il nostro immaginario è infatti così prigioniero di modelli e valori propri della società capitalista, che non riusciamo nemmeno a pensare che ci possano essere reali alternative. L’antropologia culturale, fortunatamente, ci ricorda come nella storia e nella geografia ci siano stati numerosissimi esempi di società organizzate in modi diversi e deve indurci a meditare sul fatto che quelli che molti sono portati a considerare dei dati naturali immodificabili, sono in realtà il riflesso di una visione culturale. E ci offre anche una speranza dimostrando che l’autorganizzazione che è scaturita storicamente in tante piccole comunità possa continuare ad essere la base delle interazioni umane.
Queste riflessioni ci portano al toccante resoconto che abbiamo ricevuto dalle carceri dell’Indonesia: il linguaggio fresco e sincero del compagno incarcerato ci permette di comprendere i diversi sensi che può avere la parola resistenza, e come in ogni situazione si possa cercare di cambiare le cose senza dare per scontato di doversi adeguare al sistema (e alla sua corruzione).
Il tema del mutuo appoggio costituisce il tratto distintivo di molti contributi. Per esempio, l’articolo di Alberto Franchini ci sembra importante perché ci ricorda che anche fare la spesa è un atto politico, mentre l’esperienza dei gruppi di mutuo aiuto, raccontata da Bruno Miorali, ci riporta all’importante ruolo di responsabilità di ognuno di noi all’interno di ogni piccola comunità.
In termini economici, aspetti centrali legati alla solidarietà o alla sua assenza sono trattati rispettivamente nella conversazione tra Piketty e David Graeber e nell’approfondimento dedicato alla dottrina «anarco-capitalista» che ha portato Milei al governo dell’Argentina.
Nella rubrica Radici presentiamo i profili di un grande classico dell’anarchismo, Errico Malatesta (1853-1932), e di una scrittrice libertaria scomparsa recentemente, Ursula K. Le Guin (1929- 2018). Nella sezione musicale presentiamo infine un’intervista a Andrea Satta, dei Tête de Bois, che ripercorre la sua carriera come un viaggio nei paesaggi quotidiani e famigliari, senza dimenticare «l’amore e la rivolta».

Editoriale n. 7

Un nuovo anno inizia, drammaticamente, all’insegna delle guerre e della morte, della distruzione e dell’odio.Guerra, nel martoriato Medio Oriente, tra Israele e Hamas, con pesantissimo coinvolgimento delle popolazioni civili inermi e di diversi altri paesi, confinanti e non; guerra – che continua, trascinandosi ormai due anni – tra la Federazione russa e l’Ucraina; conflitti, colpi di Stato, guerre civili in varie parti del globo.Sostenere che la guerra non è il mezzo più giusto e appropriato per la risoluzione della controversie internazionali (o nazionali), riprendendo la nota formula dell’articolo 11 della Costituzione della repubblica italiana, significa, al contempo, ripetere una cosa vera e facilmente constatabile, ma anche fare una affermazione purtroppo retorica. Utopistica, nel senso volgarmente comune del termine, in quanto evocatrice di una impossibilità politica. Giacché proprio la Costituzione italiana (1948), nel suddetto articolo, chiamava a svolgere un ruolo di pacifico arbitrato istituzionale le «organizzazioni internazionali», sottintendendo, in particolare, le neonate Nazioni Unite (1945), che avrebbero dovuto, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, garantire finalmente all’umanità un futuro di pace e benessere, limitando direttamente, sul piano del diritto internazionale e, più indirettamente, su quello del diritto nazionale, la sovranità e lo strapotere degli Stati nazionali.Così invece, in gran parte non è stato. Né poteva essere. Quell’ordine internazionale, che le istituzioni sovranazionali si impegnavano formalmente ad assicurare, nasceva su una base politica troppo diseguale, che si riflette, palesemente, nella struttura e nel funzionamento poco democratico dell’ONU, organizzazione formata, peraltro, da molti Stati retti in modo autoritario o dittatoriale. E si sovrapponeva a una realtà economica e sociale a sua volta contrassegnata da forti disparità e diseguaglianze. Sicché quel fragile equilibrio, su cui era sorto il nuovo mondo delle potenze vincitrici del Secondo conflitto mondiale, non era destinato, per sua natura, a durare a lungo. Immediatamente, infatti, si spezzò, già nel 1950, con la guerra di Corea, che rivelò al mondo quanto sostanzialmente «calda» fosse, in realtà, quella guerra definita eufemisticamente, a partire da Lippmann, «fredda», che vedeva contrapporsi il mondo delle democrazie capitaliste e dei loro alleati, spesso illiberali e antidemocratici, e quello totalitario del comunismo realizzato: una guerra combattuta spesso per procura, ma non meno crudele e devastante delle precedenti.

Editoriale n. 6

Nell’arco di tempo che passa da un numero all’altro, circa quattro mesi, accadono così tante cose che è difficile darne conto. Soprattutto, si rischia di essere sorpassati dagli eventi. Solitamente sono eventi – o dinamiche, o processi – negativi dal punto di vista di chi, come noi, si prova a muovere per allargare gli spazi di libertà e dignità. Sembra quasi che ogni cambiamento, qualsiasi trasformazione sia peggiorativa della situazione precedente. Dal lavoro alla sanità, dall’ambiente alla guerra, dalla violenza di genere alla repressione della polizia (abbiamo cominciato ad abbozzare questo editoriale subito dopo l’omicidio di un diciassettenne di Nanterre per mano delle guardie), dal carcere alle varie forme di limitazione della libertà, tra cui quella di movimento di chi cerca prospettive di vita migliori lasciando i sud del mondo. Potremmo non finire più.

Esperienze alla sezione

Anarchismo senza nome. Lezioni dalla città di Cherán

In una piccola città messicana, i residenti indigeni hanno creato una comunità nuova, democratica e in gran parte pacifica. La domanda è: cosa possiamo imparare dai loro risultati?

Murray Bookchin, nella sua opera fondamentale nel campo dell’ecologia sociale, L’ecologia della libertà, ha criticato la tendenza della storia a concentrarsi sulla «conquista del potere» e sugli imperi con i loro «templi, obitori e palazzi» – luoghi che «evocano la nostra radicata soggezione al potere». Le conseguenze di questo atteggiamento, per Bookchin, sono molto chiare:

Un muro è solo un muro, può essere distrutto

Serikat Tahanan è un’associazione antiautoritaria di detenuti organizzata all’interno e all’esterno di undici carceri in Indonesia. Lavorano per raggiungere gli attivisti antiautoritari condannati e per difendere e informare il pubblico sulle condizioni di detenzione in Indonesia. «Organizzandoci in Serikat Tahanan, ci ricordiamo costantemente perché abbiamo iniziato la nostra lotta. Il nostro programma a lungo termine è l’abolizione della prigione». I compagni hanno deciso di raccogliere i loro scritti in una pubblicazione e hanno lanciato una campagna di finanziamento per coprire le spese. In segno di solidarietà e supporto, condividiamo un pezzo della prossima pubblicazione.

Food Hub: il primo supermercato partecipativo e cooperativo in Germania

Non mi ha mai entusiasmato molto fare la spesa al supermercato. Ambienti freddi, impersonali; luci al neon; atmosfera tesa; cibi impacchettati sotto molteplici strati di plastica (!); messaggi visivi invadenti che annunciano sconti e ribassi apparentemente imperdibili; musica dalla radio con i chiassosi successi del momento, interrotti da frequenti messaggi pubblicitari e da annunci sonori per il personale. Una giungla artificiale fatta di rumori, suoni, luci, materiali, colori che frastornano, talvolta irritano e ci allontanano da quello che dovrebbe essere lo scopo principale della nostra visita: una scelta consapevole del cibo del quale ci nutriamo.
La mia esperienza quotidiana di cosa sia fare la spesa è cambiata radicalmente da quando ho iniziato a frequentare il Food Hub a Monaco di Baviera, a poche centinaia di metri da dove vivo. Vi devo però avvertire: Food Hub non è un supermercato comune. Lo si capisce già dalle vetrofanie colorate che decorano le vetrine dell’ingresso, disegnate ad hoc dallo studio di grafica Waldmeister. All’interno sono del tutto assenti quei chiassosi messaggi pubblicitari, sia sonori che visivi. L’arredamento è, infatti, parte integrante del corporate design, anche questo curato dai grafici.
Tutto è visivamente coordinato: dalle divise color sabbia di chi vi lavora, ai mobili bianchi e agli elementi di legno, fino alle multiformi lampade in vimini, appese al soffitto da colorati cavi tessili. La filosofia di Alexandra Dietl e Robert Scheurer, i grafici dietro al nome Waldmeister, si sposa alla perfezione con i valori di Food Hub, ovvero sostenibile, nel senso di biologico, ecologico, pulito, ma anche di longevo, durevole e consapevole.
L’ambiente è rilassato e le persone all’opera, spesso, sono occupate a parlare, tutto il contrario degli altri supermercati, dove le cassiere lavorano a ritmi forsennati senza mai alzare lo sguardo. Al Food Hub entri per comprare qualcosa e non esci senza aver scambiato una parola con qualcuno. Parole che possono sembrare talvolta banali o non necessarie ma che sono talvolta dei ponti per costruire relazioni più durature.
Questi sono i dettagli più evidenti di un nuovo modo di concepire un supermercato. Si tratta, infatti, di un supermercato cooperativo e socialmente sostenibile, dove solo i soci possono fare la spesa. Essere socio al Food Hub non implica soltanto il pagamento di una quota (180 euro che vengono restituiti qualora si decidesse di lasciare la cooperativa), ma presuppone un contributo mensile di tre ore, nelle quali ci si impegna a lavorare manualmente nelsupermercato. Le mansioni di cui ci si deve occupare sono simili a quelle di un normale supermercato: la pulizia degli spazi, il lavoro come cassiere o cassiera, l’accettazione delle merci, il lavoro in magazzino, la distribuzione dei prodotti negli scaffali, affettare il formaggio, impacchettare le noci…
L’idea centrale è che il lavoro manuale consolida non solo la fiducia reciproca tra i soci, ma anche quella nel progetto, attraverso la cooperazione e il lavoro di squadra. Chiamarlo supermercato è in qualche modo riduttivo. Il potenziale sociale è alto e le attività che contribuiscono al rafforzamento di questa comunità sono molte e non prendono luogo solo all’interno del negozio ma anche in altri spazi della città. Ci sono ovviamente attività legate al cibo e alla cucina, assaggi di birre e vini, formaggio francese (uno dei cofondatori ha origini francesi), ma vengono fornite anche sessioni di caffè letterari, corsi di canto e ballo… In più vengono offerte giornate di «porte aperte», dove i nuovi interessati possono vedere il supermercato e parlare con i soci.
Questo progetto ha preso avvio nella Utopia Halle, il 16 gennaio 2021 e il suo primo negozio ha aperto i battenti nel quartiere di Giesing, il primo dicembre 2022. Oltre ai due concetti principali di cui vi ho già parlato, ovvero che il supermercato appartiene ai soci e che questi devono partecipare attivamente e manualmente al suo funzionamento, ce n’è un altro: la trasparenza dei prezzi.
Il Food Hub si rifornisce, per quanto possibile, direttamente dagli agricoltori locali, promuovendo quindi prodotti di stagione e a km zero. Quando questo non è possibile e dunque, per garantire un vasto assortimento di prodotti, Food Hub attinge a grossisti o produttori di cibi biologici. L’idea è di non costringere i soci a fare la spesa in altri negozi, ma, come un vero e proprio supermercato, di fornire un’ampia gamma di prodotti, dalla pasta ai prodotti per la pulizia.
Ciò che invece accomuna tutte le merci è la politica dei prezzi. Al costo del prodotto viene applicato di norma un 30% in più, con il quale coprire i costi del Food Hub, come ad esempio pagare i dipendenti. In questo modo prodotti di alta qualità vengono venduti ad un prezzo nettamente più basso rispetto alle normali catene di supermercati biologici.
L’assortimento dei prodotti è invece del tutto inedito, per lo meno per un supermercato. I soci possono suggerire l’acquisto di prodotti o un produttore scrivendo all’interno del «libro dei desideri» che sitrova all’ingresso del supermercato. I suggerimenti vengono poi esaminati e a ciascun suggerimento viene data risposta. Un sistema simile a quello in uso nelle biblioteche dove gli utenti possono suggerire l’acquisto di libri.
I criteri di selezione dei prodotti sono definiti nella «politica di acquisto» che comprende prodotti preferibilmente biologici, regionali, stagionali e di alta qualità, ma anche puliti, giusti e a buon prezzo. Anche la logistica gioca un ruolo determinante per la selezione. I prodotti, suggeriti e approvati, rimarranno negli scaffali fintantoché saranno richiesti dai clienti. I processi che regolano il Food Hub sono importanti per il funzionamento di questo supermercato come organismo sociale e avvengono con principi decisionali «dal basso».
Parlando di prodotti, dobbiamo ricordare che l’attenzione alla sostenibilità passa anche per l’offerta di una gamma di prodotti non impacchettati che possono essere comperati nella quantità desiderata, facendo ricorso ai propri vasi o contenitori che pertanto possono essere riutilizzati e non devono essere gettati via dopo un solo uso. Per ora i prodotti offerti in questa modalità sono la frutta, la verdura, ma anche alcuni prodotti secchi, come i cereali per la colazione. Anche in questo caso l’offerta viene articolata in base alla domanda, forse ancora troppo bassa per allargare la gamma di prodotti unverpackt.
I cofondatori di questa iniziativa, Quentin Orain, Kristin Mansmann e Karl Schweisfurth, si sono ispirati al Park Slope Food Coop di New York e al La Louve a Parigi. Il primo è stato fondato nel 1973 e conta oggi 17.000 soci, il secondo ha aperto le porte nel 2017 e ha raggiunto la cifra di 7.700 soci. Numerosi altri esempi basati su questi modelli si trovano in Francia e in Belgio. In Germania Food Hub è in collegamento con altri supermercati simili, come Supercoop a Berlino, Köllektiv a Colonia e Supercoop ad Amburgo.
All’apertura di Food Hub c’erano già 700 soci, oggi i soci sono più di 2000. Tra questi il 70% abita nell’arco di un chilometro dal negozio e comprende persone di due fasce d’età, tra i 30 e i 35 anni e tra i 60 e 65 anni.
Il finanziamento di questa iniziativa monacense si basa su tre pilastri. Il primo, di cui abbiamo già parlato, riguarda la quota associativa che può essere ridotta in caso di famiglie conun reddito basso. Il secondo riguarda dei prestiti volontari da parte dei soci, che servono a Food Hub come garanzia per i prestiti da richiedere alle banche, nel caso di ampliamenti, arredamenti e quant’altro ecceda le normali spese per il funzionamento del supermercato. In questo caso ci sono due possibilità. La prima riguarda il prestito con buoni da 300 a 1500 euro, che vengono restituiti con gli interessi fino al 2% nell’arco di dieci anni, sottoforma di buoni per la spesa. La seconda opzione è quella dei prestiti subordinati a partire da 500 euro che vengono restituiti con interessi analoghi dopo otto anni. Il terzo pilastro riguarda GLS Bank, una banca etica, che ha concesso un prestito iniziale di 500.000 euro da restituire entro otto anni con un interesse al 3%. Senza questo determinante e cospicuo aiuto finanziario e morale, questa iniziativa non si sarebbe potuta realizzare.
Innovazione e tradizione sono i concetti alla base di questo progetto dove attorno all’importanza del cibo si è costruito un network nazionale che raccoglie assieme diverse comunità locali. I soci di Food Hub, come quelli degli altri supermercati di cui ho accennato, condividono gli stessi principi.
La scelta del cibo e la nostra consapevolezza rispetto a quello di cui ci nutriamo non ha solo una connotazione salutista, attenta a calorie e carboidrati, ma è anche una scelta politica. Supermercati come questo selezionano accuratamente non solo i prodotti ma anche le aziende che li producono. Lavorano in simbiosi con il territorio nel quale si trovano. Accorciano dove possibile i percorsi delle merci.
Promuovere alcune iniziative piuttosto che altre sulla base del modo in cui esse sfruttano le risorse naturali e il nostro territorio è essenziale se vogliamo salvare il nostro pianeta. Food Hub contribuisce a questa causa. Fare la spesa è un atto politico. Cercare alternative alle grandi catene di supermercati è necessario oggi più che mai. Se non ci sono, auto-organizzatevi e fondatele!

Approfondimenti alla sezione

Tragedia e farsa delle COP

La Conference of Parties (COP) è la riunione annuale dei Paesi che hanno ratificato la «Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici» (United Nations Framework Convention on Climate Change, UNFCCC). Fu firmata durante la Conferenza sull’Ambiente e sullo Sviluppo delle Nazioni Unite, informalmente conosciuta come Summit della Terra, tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992. Punto fermo del trattato era la riduzione di emissioni di gas serra.
Più di trenta anni dopo, già solo nella scelta del luogo in cui si è svolta la COP28, Dubai, negli Emirati Arabi Uniti (EAU), sembra che il mondo abbia preferito il profumo dei petrodollari sauditi, rispetto alla coerenza con i propri obiettivi. Non soddisfatti dei dollari arabi la COP29 – 11/22 novembre 2024 – va ora a caccia di consensi a Baku, capitale dell’Azerbaijan, altra culla della produzione di idrocarburi.
La decisione di svolgere a Baku la COP29 ha poco a che fare con le politiche climatiche e molto di più con le relazioni internazionali. È una decisione politica dalle profonde implicazioni. L’Azerbaijan è la longa manus della Turchia di Erdogan sul Caucaso e sull’Europa orientale come ha dimostrato il continuo appoggio dei turchi agli azeri nel corso dei conflitti contro l’Armenia per il controllo del Nagorno-Karabakh. Ultima tappa di questa guerra – spesso taciuta dei media occidentali – è stata a settembre 2023, quando l’Azerbaijan ha ripreso il controllo completo della regione costringendo la popolazione armena ad abbandonare le proprie case, provocando un esodo di oltre 140.000 persone. Lo stesso Parlamento europeo ha definito l’intervento armato azero come «pulizia etnica».
Non va dimenticato però che l’Azerbaijan è il detentore di circa il 20% delle riserve mondiali di gas ed è uno dei principali punti di partenza dei gasdotti che arrivano in Europa e che stanno assumendo ancora più rilevanza strategica da quando la guerra in Ucraina ha costretto a diversificare le importazioni di combustibili fossili. In questa situazione l’Italia è direttamente coinvolta in quanto è il principale partner commerciale di Baku tra gli stati europei e uno dei primi al mondo, con un volume di importazioni pari al 30,1% dell’export totale azero. L’Eni ha un ruolo di primo piano in diversi accordi con l’azienda statale di idrocarburi azera, la Socar, e il Tap (Trans Adriatic Pipeline) ha come azionista di maggioranza l’italiana Snam.
La domanda che sorge spontanea è: con quale spirito l’Unione Europea e l’Italia affronteranno la COP29 in Azerbaijan? Saranno disposte ad andare contro gli interessi del Paese ospitante nonché proprio partner strategico? L’UE – come ha già dimostrato – rischia di trattare erroneamente energia, clima e politica internazionale come materie tra sé scollegate, tralasciando la tutela di altri valori imprescindibili per una transizione «giusta, ordinata ed equa» dalle fonti fossili.
Per poter leggere a 360 gradi la scelta di svolgere la COP29 in Azerbaijan è bene fare un rapidissimo excursus su qual è la situazione a livello di diritti umani nel Paese. Secondo Freedom House essa è ancora peggiore di quella degli Emirati Arabi Uniti. Il potere è nelle mani di Ilham Aliyev e della sua famiglia allargata dal 2003; ciò rende di fatto l’Azerbaijan uno stato autoritario. Sono negati i minimi diritti civili e sociali fra cui la libertà di opinione e la libertà di riunirsi in assemblea. Nel corso dell’ultimo anno sono stati arrestati numerosi attivisti di ONG e giornalisti con la sola colpa di aver criticato il presidente e aver dato spazio alle parole dell’opposizione. Inoltre durante il conflitto in Nagorno-Karabakh l’Azerbaijan si è reso colpevole di crimini di guerra accertati da fonti indipendenti internazionali.
Torniamo alla COP28 del 2023 che si è svolta a Dubai, una delle città più energivore del pianeta e l’ottavo Paese produttore di petrolio al mondo, perché lì era già delineato l’approccio delle élite mondiali sul tema che Baku 2024 non fa altro che rafforzare. Secondo i dati della Banca Mondiale, gli EAU hanno uno dei cinque livelli più alti al mondo di emissioni di anidride carbonica pro capite e sono ritenuti da varie fonti indipendenti fra cui Freedom House e Amnesty International un Paese in cui non vengono garantiti i diritti umani e le più basilari libertà civili.
Da quando è diventato presidente Mohamed bin Zayed sono state approvate nuove leggi che limitano significativamente la libertà di espressione e di riunione. Le autorità hanno prolungato la detenzione arbitraria di decine di vittime di processi di massa oltre la fine del loro periodo di detenzione e hanno sottoposto un difensore dei diritti umani e un dissidente a maltrattamenti prolungati. Inoltre il governo ha rinnovato la sua posizione contraria al riconoscimento dei diritti dei rifugiati.
Svolgere una conferenza di questa importanza per il futuro del pianeta in Paesi di tale caratura, prima gli EAU, poi l’Azerbaijan, significa da un lato non curarsi particolarmente dei risultati della conferenza e dall’altro, ancor più grave, accettare ed essere complici di queste politiche autoritarie, liberticide ed ecocide.
Questa è la tragedia. Tragedia ecologica, umana e sociale sulla pelle di tutti noi.
La farsa sono i risultati della COP28 che devono essere letti tenendo a mente il luogo in cui sono stati ratificati e lo svolgimento della conferenza. Presidente della COP28 è stato Sultan Ahmed Al Jaber, ministro dell’industria e delle tecnologie avanzate degli EAU, già presidente della Abu Dhabi National Oil Company dove ha avviato investimenti nelle tecnologie di cattura del carbonio e nell’idrogeno come politica di greenwashing per giustificare l’incremento nella produzione di petrolio.
Inoltre durante la COP28 è passato alle cronache per aver dichiarato «non mi accoderò in ogni caso ad alcun discorso allarmista. Nessuno studio scientifico, nessuno scenario afferma che l’uscita dalle energie fossili ci permetterà di raggiungere l’obiettivo degli 1,5 gradi». Tutto falso. Non è allarmismo, ma realismo.
I risultati della COP28, anche alla luce di quanto illustrato sopra, sono stati la classica montagna che ha partorito un topolino. Ciò che salta maggiormente all’occhio e sucui gli analisti si sono concentrati è la scelta delle parole sulla fine dei combustibili fossili. Se gli impegni precedenti parlavano di phase out, quindi di fine globale della produzione di combustibili fossili, nei risultati della COP28 si parla di phase down, cioè di riduzione graduale. Phase down senza una definizione delle tempistiche in cui realizzarlo, vuol dire in sostanza ritenere accettabile l’utilizzo – gradualmente sempre inferiore – di combustibili fossili a data da destinarsi. Cioè probabilmente mai, visti gli attori in gioco. Guarda caso si è giunti all’accordo sul phase down grazie all’appoggio di Russia, Cina e Arabia Saudita che non sarebbero state disponibili a un phase out.
Le prospettive future sono tutt’altro che rosee. È ormai certo che non saremo in grado di rispettare la soglia dei +1,5°C di aumento della temperatura fissata dagli accordi di Parigi. Per la prima volta abbiamo superato questo limite a inizio giugno 2023. Dicembre dello stesso anno non ha fatto che confermare la tendenza. Non c’è più neve per sciare e, invece cheriflettere sul sistema socio-economico che ci ha portato in questa situazione e decelerare la crescita imposta dal capitalismo, si continuano a implementare soluzioni che devastano il pianeta come sparare neve artificiale mista a composti chimici pur di tenere aperti gli impianti sciistici. Possibile fino a quando farà talmente caldo che anche la neve artificiale non attaccherà più. Mentre sembra non esserci fine al peggio della farsa politica, riecheggiano forti le parole di Cedric Schuster – Ministro dell’Ambiente di Samoa – pronunciate al termine della COP28: «Se continuate a dare priorità al profitto rispetto alle persone, state mettendo in gioco il vostro stesso futuro». Nel frattempo la terra continuerà a bruciare in estate e ad allagarsi in inverno, il livello dei mari si alzerà e le popolazioni che vivono sulle coste saranno costrette a migrare.

Antropologia anarchica

Nel cercare di delineare questo approfondimento sull’incontro, o sull’intreccio, tra antropologia culturale e «pensiero anarchico», credo sia importante muoversi su due versanti. Da una parte i modi attraverso i quali l’antropologia culturale si rifonda, in epoca postcoloniale. Dall’altra una questione fondamentale e di amplissima portata, sui valori di riferimento e sugli ideali che antropologia culturale e anarchismo si sono trovati a condividere sul tema della «natura umana».
L’antropologia culturale «ricomincia», in epoca postcoloniale, sviluppando un nuovo paradigma, in un arco temporale che copre la seconda metà del Novecento. Possiamo individuare uno dei primi segnali di crisi del vecchio paradigma coloniale nel celebre quanto anomalo libro di Claude Lévi-Strauss, Tristi tropici. Nato come riflessione a margine delle ricerche compiute in Brasile negli anni Trenta, Tristes tropiques viene pubblicato nel 1955. Nella recensione uscita l’anno successivo, Georges Bataille scriveva che la novità del libro consisteva nel fatto che esso «si oppone a rimaneggiamenti» (di idee già note) e «risponde al bisogno di valori più ampi, più poetici» (Bataille 1956).
Il libro mescola i generi: saggio di antropologia, meditazione filosofica, racconto di viaggio… si candida per il premio Goncourt, che gli verrebbe assegnato, ma ciò non è possibile, non essendo un romanzo. Viene tradotto in inglese nel 1961, con un titolo cambiato ma significativo: The World on the Wane, «il mondo che sta sparendo». Qual è il mondo che scompare? Quello dei «popoli primitivi», certo (i Nambikwara che Lévi Strauss incontra erano già allora minacciati e in fuga). In via di sparizione era anche il vecchio ordine mondiale del colonialismo. Il «mondo che non esiste più» sarebbe stato, a breve, quello contestato dalla controcultura degli anni Sessanta.
In Tristi tropici si trova un po’ di tutto, ma ci sono anche passaggi che potrebbero stare in un volantino di protesta:
“Oggi che le isole polinesiane, soffocate dal cemento armato, sono trasformate in portaerei pesantemente ancorate al fondo dei Mari del Sud, che l’intera Asia prende l’aspetto di una zona malaticcia e le bidonvilles erodono l’Africa, che l’aviazione commerciale e militare viola l’intatta foresta americana o melanesiana, prima ancora di poterne distruggere la verginità, come potrà la pretesa evasione dei viaggi riuscire ad altro che a manifestarci le forme più infelici della nostra esistenza storica? Questa grande civiltà occidentale, creatrice delle meraviglie di cui godiamo, non è certo riuscita a produrle senza contropartita. Come la sua opera più famosa, pilastro sopra il quale si elevano architetture d’una complessità sconosciuta, l’ordine e l’armonia dell’Occidente esigono l’eliminazione di una massa enorme di sottoprodotti malefici di cui la terra è oggi infetta. Ciò che per prima cosa ci mostrate, o viaggi, è la nostra sozzura gettata sul volto dell’umanità” (Lévi-Strauss 1982: 36).
La critica al colonialismo e alle distruzioni da esso operate è serrata. Si affaccia però anche una sensibilità nuova, planetaria, ecologica. La «sozzura gettata sul volto dell’umanità» la possiamo intendere come scorie e rifiuti tossici spediti nei territori delle ex colonie (un problema sempre attuale). Il processo distruttivo che continua nelle sue forme neocoloniali, determinando l’invivibilità di intere aree del Pianeta e concorrendo a quella crisi umanitaria (intrecciata alla crisi ambientale) che oggi è sotto gli occhi di tutti. Dunque Tristi tropici è anche un libro di premonizioni, che annuncia, anticipa quei processi per cui «il mondo che scompare» rischia di non essere solo quello dei popoli cosiddetti primitivi.
Lévi-Strauss esprime dunque un pensiero radicale, che non si chiude nei comparti accademici e non farà «scuola». Pochi, tra gli antropologi, ne rivendicheranno la diretta filiazione. Uno diquesti sarà, in Francia, Pierre Clastres. Clastres farà ricerca in Paraguay e pubblicherà nel 1974 un libro, La Société contre l’État. Recherches d’anthropologie politique (Clastres 2022), che inaugurerà un dibattito estremamente importante nell’ambito dell’antropologia politica: il potere coercitivo non è universale. Tra i nativi americani incontrati da Clastres i capi esistono, ma svolgono una funzione di mediatori di conflitti, usano il linguaggio, l’autorevolezza per dare coesione al gruppo. Non danno ordini, non impongono nulla, non alzano la voce. Ciò che Clastres riscontra in Sud America, lo ritroviamo tra i nativi del Nord America, dove i «capi» si fanno scrupolo persinoad esercitare influenzamento, considerato come una maleducazione: dire a qualcuno quello che deve o dovrebbe fare…
L’antropologia anarchica di Pierre Clastres, negli anni Settanta, sembra un exploit isolato e questo antropologo, purtroppo, muore prematuramente. In quegli anni sta però strutturandosi una nuova antropologia americana, formatasi nei campus universitari del decennio precedente, attraversati da fermenti controculturali. Clifford Geertz è uno dei protagonisti di questa nuova generazione. La sua antropologia interpretativa (Geertz 1973) offre una nuova prospettiva metodologica, che si ispira al circolo ermeneutico in filosofia. L’interpretazione, concepita in questo modo – filosofico e antropologico – non può che essere libera e virtualmente infinita. Così come è bene che il circolo ermeneutico resti sempre aperto: ogni volta che si cerca di chiuderlo si cade in un assolutismo, in una involuzione autoritaria. Ogni totalitarismo (e anche ogni «populismo») si caratterizza per sopprimere la libera interpretazione. L’antropologia interpretativa offre dunque un contributo molto importante, su scala globale, alla critica del principio di autorità.
Parallelamente, un’altra importante risorsa arrivò in uno dei filoni principali dell’antropologia culturale in Europa. In un contributo che ebbe grande influenza Ethnic groups and boundaries. The social organization of culture difference (1969) (Barth 1994), Fredrick Barth focalizzò lo sguardo antropologico sul confine etnico, mostrandone la permeabilità e per molti aspetti l’inconsistenza. Veniva messo in questione un altro «mattone» del vecchio paradigma antropologico, l’etnia. Assieme a esso, risultavano artificiosi tutti i processi di «etnicizzazione», che dividevano i popoli su linee di confine che in epoca coloniale erano state rimarcate. I processi che mettevano in ombra i mescolamenti e la libertà di movimento degli esseri umani al di là delle barriere etniche o linguistiche. Cosa impediva di trasportare la teoria di Barth dal confine etnico al confine nazionale? Arrivava dunque dall’antropologia un consistente rinforzo agli ideali dei «senza patria» e di tutti coloro che, per le più diverse ragioni, cercavano di far valere la propria libertà di movimento contro l’oppressione dei confini degli stati nazione, segnati da violenze e da guerre.
Sul versante ideologico, l’antropologia postcoloniale aveva subìto la forte influenza del marxismo. Come ha recentemente mostrato Tim Ingold (Ingold 2020), fu questa una parentesi piuttosto breve. Tra il pensiero di Marx e l’antropologia vi erano incroci fecondi, e durante gli anni della decolonizzazione molti antropologi si erano schierati, come militanti, a fianco dei movimenti di indipendenza dalle colonie, con posizioni marxiste e rivoluzionarie. Vi erano, tuttavia, nelle teorie marxiste, alcuni assunti che non potevano che cozzare con la ricerca antropologica: Clastres fu uno dei primi a osservare l’inapplicabilità, per l’antropologia, del rigido schema teorico «struttura/sovrastruttura». Da una parte, gli antropologi continuavano a riscontrare aspetti «sovrastrutturali» che apparivano, presso i popoli che visitavano durante le ricerche, come «strutturali». Dall’altra, era piuttosto evidente che il rapporto tra «strutture economiche» e «sovrastrutture culturali» rifletteva di per sé un implicito del mondo occidentale moderno: presto o tardi l’ebbe vinta la prospettiva metodologica che Levi-Strauss aveva messo in rilievo in Tristi tropici: emanciparsi dai propri schemi per poter davvero comprendere le diversità umane, «spogliare i nostri usi» di quella evidenza che gli viene attribuita (Lévi-Strauss 1982: 377), sollevare il velo dei nostri impliciti culturali. Concetto che era molto chiaro anche al nostro Ernesto De Martino, quando teorizzava l’etnocentrismo critico (la capacità di riconoscere i limiti della propria visione del mondo). Il marxismo (come la psicoanalisi) rappresentava una miniera di sollecitazioni, ma risultava inapplicabile ogni volta che si imponeva come schema totalizzante e universalistico. L’antropologia economica e l’antropologia politica non potevano appiattirsi su uno schema ideologicamente preconfezionato. Le ricerche di Clastres avevano dimostrato, sul piano politico, che il potere coercitivo non è universale. Sul piano economico, l’antropologo americano Marshall Sahlins con il suo Stone age economics, del 1972 (Sahlins 2020), aveva messo in risalto tali e tante varianti degli schemi consueti del mondo occidentale o dei suoi razionali «costi/benefici», per le quali l’intero edificio di una antropologia economica di impostazione marxista non poteva reggere.
Si rendeva dunque necessaria, per l’antropologia, una prospettiva ampia, completamente disancorata. L’antropologia culturale si caratterizzava come un movimento di libero pensiero.
Erano ancora gli anni Settanta quando si profilò, in ambito scientifico, una visione particolarmente riduttiva e totalizzante, quella della sociobiologia. Una divulgazione particolarmente pervasiva, convincente quanto brutale, veicolava l’idea di una «natura umana fondamentalmente aggressiva», che andava tenuta sotto controllo. La sociobiologia (che affermava di poter «spiegare tutto») e le retoriche del controllo sociale costruirono una potente saldatura. L’antropologia culturale aveva pronto, in risposta, un «pacchetto» di ricerche molto accurate, che mettevano in questione l’assunto di base sul quale la sociobiologia costruiva la sua pretesa universalizzante. Una generazione di antropologi e antropologhe, negli anni Sessanta, aveva dato nuovo slancio alla ricerca presso i cosiddetti primitivi e aveva riportato, dai campi di ricerca, visioni radicalmente diverse da quelle precedentemente raccolte. Questo nuovo volume di ricerche si era focalizzato su quei popoli del Pianeta che – nelle regioni estreme, in deserti e foreste, nella tundra o sui ghiacci – portavano avanti uno stile di vita basato sulla caccia e la raccolta. Queste ricerche furono raccolte nel celebre convegno Man the Hunter del 1968. Si trattava di etnografie molto accurate, sul piano scientifico, da parte di ricercatrici e ricercatori che avevano realmente provato a condividere la vita di queste popolazioni: senza pregiudizi e fuori dalle strutture e dagli schemi coloniali, con un notevole entusiasmo e una spinta ideale a cogliere il caleidoscopio dell’umanità in queste estreme sfaccettature. L’idea antropologica generale di costruire un mosaico di umanità il più possibile completo e inclusivo, si arricchiva di elementi nuovi e caricati di una nuova autorevolezza scientifica. Ragionando su questi nuovi elementi Sahlins mise insieme il suo Stone age economics. Facendo riferimento a queste ricerche – che proseguirono nel decennio successivo – Ashley Montagu (antropologo inglese, allievo di Malinowski) mise insieme, nel 1978, una raccolta di saggi etnografici intitolata Learning non aggression (Montagu 1987). Questa raccolta rappresentò la più efficace e fondata critica alle retoriche della sociobiologia. Dalle foreste equatoriali dell’Africa a quelle del Sudest asiatico, dalle isole della Polinesia ai ghiacci dell’Artico centrale canadese, sicomponevano tessere di un mosaico di umanità che, attraverso un’educazione a tutti i livelli, allontanava l’aggressività da se stessa, coltivando temperamenti miti, timidi, orientati alla cura, alla solidarietà e alla cooperazione all’interno del gruppo domestico o della comunità. Un disegno di umanità che traccia una sorta di «cordone sanitario» attorno al gruppo per impedire che scariche di aggressività, di rabbia o di violenza vi possano penetrare, facendo filtrare un potenziale distruttivo reputato, sul piano dei valori, disumano. Un «patto sociale» molto diverso da quello teorizzato da secoli di filosofia occidentale. Per molti aspettiun patto sociale al femminile, che si opera per tenere fuori la violenza dalla comunità, sul piano delle pratiche e dei valori, attraverso l’educazione, nel cerchio protettivo della cura e dell’accudimento. Vengono in mente, al di là dei casi etnografici del libro curato da Montagu, le donne irochesi durante gli scontri con la polizia canadese, nel 1995, che sventolavano e fumigavano i loro militanti maschi prima che rientrassero nelle loro case. Per purificarli dalla rabbia e dalla violenza, che, portate «dentro casa» avrebbero potuto riverberare altra rabbia e altra violenza. L’idea dell’aggressività come un contagio, contrario all’educazione, ben diversa dall’idea di aggressività come carattere fondamentale, «profondo», irredimibile, che può essere soltanto represso e controllato da istituzioni (maschili), spesso dai cosiddetti «detentori della violenza legittima». Un disegno di umanità, quello dei popoli raccolti nel libro di Montagu, che pone al centro accudimento ed educazione, dove non trova spazio nessun preconcetto su una presunta «natura umana». Esseri umani allo «stato di natura», del resto, in antropologia o paleoantropologia – nell’arco spaziale o temporale delle forme di umanità che sono state finora conosciute – non sono mai stati trovati. Ciò che sappiamo dei gruppi umani antecedenti ai Sapiens (in un arco temporale di centinaia di migliaia di anni) è che si trovavano in uno stato di cultura, non di natura (rituali funerari, focolari domestici, tecniche, linguaggio, etc.). Quando Lévi-Strauss, negli anni Trenta, orienta la sua etnografia sui Nambikwara, è alla ricerca di un gruppo umano che possa avvicinarsi allo «stato di natura» teorizzato due secoli prima da Rousseau. I Nambikwara erano infatti considerati «selvaggi» dagli stessi popoli confinanti, a ridosso della foresta amazzonica. In effetti essi dormivano per terra, sotto ripari di frasche, non intrecciavano nemmeno le amache, un tratto comune dei loro vicini. Tuttavia, a fronte di questa primitività materiale, questo popolo era organizzato con sistemi politici e sistemi di parentela piuttosto complessi. Una celebre foto di Lévi-Strauss, intitolata «intimità», è pubblicata in Tristi tropici: ritrae una famiglia nucleare Nambikwara. A sentire le teorie freudiane (di qualche decennio precedenti alle ricerche di Lévi-Strauss) tra i Nambikwara avrebbe dovuto esserci l’orda primordiale, non la famiglia nucleare (considerata un’evoluzione moderna).
In definitiva, gli antropologi, di una «natura umana» – nel tempo e nello spazio – non hanno trovato riscontro. Una scoperta «in negativo», ma di ampia portata. Non avendo trovato una «natura umana» e dunque non avendola mai potuta osservare né descrivere, a rigore scientifico non se ne dovrebbe parlare. La sociobiologia andrebbe, per questa ragione, considerata una pseudoscienza, o una cattiva scienza, alla stregua del razzismo ottocentesco. Bisognerebbe piuttosto chiedersi a quale scopo, la sociobiologia ha elaborato le proprie retoriche. Retoriche che continuano a essere terribilmente attuali e consolidate, tento che Sahlins ha sentito il bisogno di pubblicare, nel 2008, una sorta di pamphlet, dal titolo particolarmente significativo: The Western Illusion of Human Nature (Sahlins 2010).
Il nesso «guerra», «razzismo», «natura umana violenta» è divenuto oggi più forte che mai. Che sia stato questo lo scopo della sociobiologia, naturalizzarci a questo destino? Un destino grigio, oppressivo, che manda il senso di umanità sotto le scarpe. Quale miglior sistema per sviluppare il più efficace sistema di controllo: costringere gli esseri umani a un depressivo «principio di realtà», dove tutto è prevedibile e inevitabilmente competitivo e violento. Prevedibile, misurabile e quantificabile, nulla sfugge a questa griglia di pensiero.
Negli ultimi decenni l’antropologia culturale ribadisce il suo carattere di disciplina indisciplinata, che non «serve» a niente, nel celebre gioco di parole: non è al servizio di nessun potere, persegue finalità puramente conoscitive, offre uno strumento interpretativo aperto alle diversità umane, in tutti i sensi; scalpita se rinchiusa in ambiti disciplinari e metodologici troppo rigidi, rivendica uno spazio di libero pensiero e di critica alle posizioni essenzialiste e identitarie. Con questo spirito, Clifford Geertz chiama l’antropologia la sua «gaia scienza», François Laplantine teorizza la sua «critica all’identità» e Ulf Hannerz ribadisce il ruolo dell’antropologia come impegno civile e contributo alla «trasparenza della società mondiale» (Geertz 2001: 85; Laplantine 2004: 15; Hannerz 2001: 228).
Assistiamo anche al profilarsi di personaggi «irregolari» tra i più influenti antropologi contemporanei. Nel 2016 Michael Taussig si entusiasma per la causa dei curdi, che per la prima volta nella storia rivendicano il loro diritto a esistere senza immaginarsi nella forma di uno stato nazione (Dirik, Levi Strauss, Taussig, Wilson 2017). «Sembra la Spagna del 1936», dirà a una conferenza, «e sta succedendo ora».
Tim Ingold, altro tra i più importanti antropologi contemporanei, nella sua ultima opera prende una deriva decisamente poetica, fuori da tutti gli schemi accademici (Ingolt 2021).
Dunque quando David Graeber teorizza esplicitamente la sua antropologia anarchica, segna un punto di arrivo di un processo che si è snodato in un arco temporale di oltre mezzo secolo. Graeber recupera riferimenti anche più antichi di antropologi anarchici e ci ricorda che la sociobiologia tentò anche di «rimediare», in senso retrivo, alla corrosiva critica che nell’Ottocento Kropotkin aveva portato, da scienziato, al darwinismo sociale (Graeber 2006: 21).
Graeber ci riporta anche a uno degli aspetti più attrattivi dell’antropologia culturale (dalla prospettiva ampia di lettori e lettrici), quello della fascinazione per l’esotico: quando ci racconta l’utopia libertaria dei pirati nel Madagascar del 18° secolo (Graeber 2020). Al di là della fascinazione, in questo libro Graeber ribalta i luoghi comuni della Storia, mostrando quanto fu originale e importante ciò che accadde in uno scenario lontanissimo dell’Europa, con il protagonismo di un soggetto completamente «fuori dai nostri radar» colonialisti e maschilisti, quello delle donne malgasce che accolsero i pirati nelle loro comunità.
Anche il Manifesto di Losanna (Saillant, Kilani, Graezer Bideau 2012) presenta l’antropologia culturale come una sorta di pietra di inciampo, in un mondo dominato dalle leggi di mercato, dal riduzionismo, dalla ricerca costretta nei tempi di un rapid appraisal, piegata quasi esclusivamente sui dati quantitativi o sui «big data» tratti dai social network.
Si riapre dunque, in tempi nei quali la tecnologia ha raggiunto uno dei massimi livelli di saturazione del reale, l’interrogativo sui «saperi umanistici» e, in senso ampio sulla crisi umanitaria. Ci scherzava Edgar Morin, nel secolo scorso, sull’Homo sapiens – demens. Oggi, con Edgar ancora tra noi, ci siamo arrivati in pieno.
«Girano le carte», scriveva Lévi-Strauss in una celebre metafora di Razza e storia, e ogni tanto qualcuno si ritrova per le mani un poker d’assi. Che sia questa la volta per un’antropologia anarchica, non egemonica, detentrice di un antico ideale umanistico mai sopito, che torna drammaticamente alla ribalta nella crisi attuale? O sono invece gli antropologi anarchici gli estremi custodi dell’utopia di una Gaia scienza?

Medicina di genere: medicina della differenza

La concezione androcentrica della medicina tradizionale ha storicamente considerato la donna una variabile del genere maschile, un «piccolo uomo» da studiare nella sua specificità limitatamente all’apparato riproduttivo. Galeno, medico romano del II secolo d.C. riteneva che gli organi genitali femminili fossero una forma imperfetta, non sviluppata di quelli maschili: il corpo della donna era un corpo sbagliato, venuto male, non degno di studi particolari. Andrea Vesalio, fondatore dell’anatomia moderna, pur essendo tra i primi assertori del superamento dell’antica medicina galenica, continuava ad affermare che «l’organismo maschile e quello femminile non differiscono in alcuna maniera se non nell’apparato riproduttivo». Fino alla fine del 1600 non esisteva nemmeno un termine che definiva la vagina, considerata un «pene introflesso», secondo la descrizione che ne faceva Erofilo, medico del III secolo d.C.
Nella storia della medicina le donne sono sempre state assenti o, se presenti, relegate a ruoli marginali e non facilmente ricostruibili. Sono state mediche senza laurea, infermiere senza qualifiche, assistenti naturali e spontanee. Non avevano un ruolo ufficiale, né una formazione accreditata. È una questione di potere. L’esercizio della medicina infatti attribuisce al medico il potere di curare, esercitato per il bene del malato. Lo dice bene Rodrigo De Castro, medico del diciassettesimo secolo, nel suo trattato Medicus politicus quando afferma che come il sovrano governa lo Stato e Dio governa il mondo, il medico governa il corpo umano. Potere, governo e controllo biopolitico sono tre pilastri del patriarcato: non è difficile immaginare quindi perché la scienza medica sia stata un affare solo del genere maschile e abbia confinato le donne alle pratiche della cura, espressione di conoscenze tramandate che richiedevano un approccio empirico e non scientifico. Le donne presenti in campo medico andavano oscurate perché, occupando uno spazio professionale di potere che gli uomini avocavano a sé, erano scomode. Non dimentichiamo che molte delle streghe perseguitate in Europa a partire dal XV secolo erano levatrici, in linea con una lunga tradizione di pratica medica più empirica che teorica: la caccia alle streghe era quindi anche un tentativo del medico uomo di riappropriarsi del settore dell’ostetricia, spazio prettamente femminile.
L’applicazione della medicina di genere è recentissima. Nel 1991 la cardiologa americana Bernardine Healy, direttrice del National Institute of Health americano pubblicò sull’importante rivista scientifica «New England Journal of Medicine » un articolo in cui metteva in evidenza le differenze nella cura di uomini e donne con le stesse malattie cardiovascolari. L’errata convinzione che fossero patologie tipicamente maschili portava infatti a ritardi nelle diagnosi e nella cura delle donne, spesso sottoposte a terapie inappropriate. Da quel momento a livello mondiale è cominciato un graduale e lento riconoscimento del genere come uno dei determinanti di salute. In Italia l’approvazione della Legge 3 del 2018 ha definitivamente inserito il concetto di genere nel Servizio Sanitario Nazionale. Sesso e genere non sono sinonimi. Con il termine sesso ci si riferisce alle caratteristiche fisiche e biologiche dell’individuo che includono le concentrazioni ormonali, gli apparati riproduttivi, le espressioni dei geni e i loro effetti e le diverse conformazioni fisiche, ad esempio la più alta percentuale di grasso corporeo nelle donne. Il genere invece è associato al comportamento, allo stile di vita e all’esperienza. È un costrutto sociale, cioè qualcosa che è prodotto dalla società e non inerente al nostro corpo. La società è culturalmente fondata sul binarismo di genere, ovvero sulla rigida distinzione tra maschile e femminile, da cui vengono fatte derivare aspettative altrettanto rigide sui comportamenti, gli atteggiamenti, l’aspetto e i ruoli. Una persona che ha un’identità di genere in linea con il sesso biologico è definita cisgender. Transgender è invece chi presenta un’identità di genere diversa dal sesso biologico. Alcune persone transgender decidono di intervenire sulla loro incongruenza di genere, ovvero sul loro corpo, per renderlo più simile a come si sentono, attraverso trattamenti ormonali e/o chirurgici.
La medicina genere-specifica nasce dalla constatazione che le differenze tra uomini e donne in termini di salute sono legate non solo ai caratteri biologici e alla funzione riproduttiva, ma anche a fattori ambientali, sociali, culturali e relazionali. È una dimensione trasversale del sapere medico che adotta criteri di valutazione scientifica a partire dall’influenza del sesso e del genere sulla fisiopatologia umana e sulla sintomatologia clinica. Le malattie non si manifestano allo stesso modo nelle femmine e nei maschi. Torniamo alle patologie cardiovascolari che hanno fornito lo spunto per iniziare a parlare di medicina di genere. In Italia per le malattie del sistema cardiocircolatorio muoiono più le donne che gli uomini. Tranne nel periodo della vita in cui la donna è fertile, che vede gli uomini di pari età essere più colpiti, dopo la menopausa, al venir meno della protezione data dagli estrogeni, la frequenza di queste patologie nelle donne va progressivamente aumentando fino a superare l’uomo dopo i 75 anni. Allo stesso modo esistono malattie ritenute tipicamente femminili, come l’osteoporosi, che spesso negli uomini non sono considerate pur rappresentando anche per essi minacce alla salute soprattutto in età avanzata. Anche la depressione sembra essere meno frequente negli uomini rispetto alle donne. Ma i dati non tengono conto del fatto che il maschio ricorre con più difficoltà all’assistenza sanitaria in questo settore e che l’accertamento della malattia psichiatrica negli uomini è più complessa perché realizzata su linee guida che si basano solo sui disturbi manifestati dal genere femminile. La recente pandemia da SARS-CoV-2 ci ha fornito elementi per comprendere quanto le differenze biologiche legate al sesso e quelle socio-culturali legate al genere abbiano ricadute sulla salute delle persone. L’infezione da Covid-19 ha infatti manifestato un’ampia suscettibilità alla dimensione del genere, che ha riguardato tra l’altro la prevalenza e la severità della malattia e la mortalità. I dati disaggregati per sesso di cui si dispone hanno indicato infatti che, rispetto agli uomini, le donne hanno presentato meno complicanze e mortalità. Ciò è dovuto al fatto che le cellule del sistema immunitario delle donne hanno la capacità, grazie agli estrogeni, di attivare risposte più pronte, efficaci e durature rispetto a quelle degli uomini, rendendole più resistenti alle infezioni. Il risvolto negativo è che questo le rende più suscettibili all’insorgenza di patologie mediate dal sistema immunitario, le cosiddette malattie autoimmuni. Ma le donne, anche se meno colpite in termini di morbilità, sono coloro che hanno subito maggiormente l’impatto sociale, economico e di violenza della pandemia con un rischio circa doppio di sviluppare o di aggravare sindromi patologiche a lungo termine. Anche la ricerca sui farmaci e sui dispositivi medici risente della concezione androcentrica della medicina. Questi ultimi ad esempio sono studiati prevalentemente sull’uomo: lo sono le mascherine che abbiamo portato durante la pandemia, che hanno un impatto maggiore sulla cute delle donne, e che sono state da loro indossate molto più che dagli uomini (pensiamo soltanto al personale impiegato nelle strutture sanitarie); lo erano i primi modelli di cuore artificiale usati per le persone in attesa di trapianto, troppo grandi per il torace della maggior parte delle donne; lo sono i pacemaker necessari per «sincronizzare» il cuore e risolvere lo scompenso cardiaco, più utilizzati negli uomini che nelle donne, pur traendone queste ultime maggior beneficio.
Ormoni e genetica giocano un ruolo importante anche nel meccanismo di azione dei medicinali. Solo dopo il 1993, su richiesta della Food and Drug Administration, gli studi clinici sui farmaci hanno cominciato a includere le donne. Il problema però non è solo quello di dare rappresentanza al genere femminile, ma di definire specifiche analisi di genere, gestendo separatamente i parametri di efficacia e sicurezza sui due sessi: quando si tratta di analizzare i dati il sesso viene spesso trascurato. Non serve mettere in commercio i farmaci con le confezioni rosa per le femmine e azzurre per i maschi se contengono lo stesso principio attivo nelle medesime quantità: occorre definire dosaggi diversi per i due sessi in modo da garantirne la massima efficacia e la minor tossicità.
Sebbene sesso e genere siano due concetti diversi, sono molto legati tra di loro e spesso è difficile separarne l’interazione. In alcuni casi il sesso influenza la salute modificando il comportamento, che è più associato al genere. Questo accade, ad esempio, quando il testosterone influisce sulla probabilità di sviluppare comportamenti «maschili» aggressivi portati alla prevaricazione e al dominio. Viceversa, comportamenti ripetuti, come cattive abitudini, scelte alimentari sbagliate, esposizione a stress o inquinamento possono portare a modificazioni epigenetiche, ovvero a quelle modificazioni ereditabili che portano a variazioni dell’espressione dei geni senza però alterare la sequenza del DNA. Sui comportamenti sappiamo che incidono pesantemente le diseguaglianze e gli stereotipi di genere su cui è normata la società: a livello globale sono le donne a essere maggiormente svantaggiate nell’accesso alle cure, a causa delle disuguaglianze di genere e delle discriminazioni sociali verso il genere femminile, con effetti pesanti sulla loro salute.
Non bisogna cadere nell’errore di considerare la medicina di genere come la medicina delle donne. Potremmo invece definirla come la medicina della differenza, un approccio diverso e innovativo alle disuguaglianze di salute, a partire dall’insorgenza e dall’evoluzione delle malattie, dovute all’appropriatezza della diagnosi e della cura, ma anche alle disuguaglianze sociali, culturali, etniche, psicologiche, economiche e politiche che determinano il vissuto delle persone.

Conversazioni alla sezione

Conversazione con Giampietro (Nico) Berti

Giampietro (Nico) Berti (Bassano del Grappa, 1943) è considerato uno dei maggiori storici dell’anarchismo. Professore ordinario di Storia contemporanea in pensione, ha insegnato e fatto ricerca all’Università di Padova dal 1977 al 2012. I suoi campi di studio hanno spaziato dalla storia dell’anarchismo e del socialismo, al Risorgimento, alla Storia dell’Università di Padova e alla storia locale. Autore di decine di pubblicazioni, infaticabile organizzatore di convegni, incontri culturali e gruppi di lavoro, ha scritto: La dimensione libertaria di P.J. Proudhon (Città Nuova, Roma, 1982); Francesco Saverio Merlino. Dall’anarchismo socialista al socialismo liberale (1856-1930) (FrancoAngeli, Milano, 1993); Un’idea esagerata di libertà. Introduzione al pensiero anarchico (elèuthera, Milano, 1994); Il pensiero anarchico. Dal Settecento al Novecento (Manduria-Bari-Roma, 1998); Errico Malatesta e il movimento anarchico italiano e internazionale 1872-1932 (FrancoAngeli, Milano, 2003); Libertà senza Rivoluzione. L’anarchismo fra la sconfitta del comunismo e la vittoria del capitalismo (Lacaita, Manduria-Bari-Roma, 2012); Contro la storia. Cinquant’anni di anarchismo in Italia (1962-2012) (Biblion, Milano, 2016); Il principe e l’anarchia. Per una lettura anarchica di Machiavelli alla luce di una lettura machiavelliana dell’anarchismo (Rubbettino, Soveria Mannelli, 2023). Ha diretto il Dizionario biografico degli anarchici italiani (BFS, Pisa, 2003-2004) e curato gli scritti antologici di Bakunin, Kropotkin, Malatesta e Proudhon per le edizioni elèuthera (La libertà degli uguali; Scienza e anarchia; Il buon senso della rivoluzione; Critica della proprietà e dello Stato, varie edizioni). Attivista anarchico negli anni Sessanta e Settanta, ha collaborato alle riviste «A Rivista anarchica», «Volontà», «Libertaria» e alle edizioni Antistato ed elèuthera, partecipando alle attività del Centro Studi “Giuseppe Pinelli” di Milano e contribuendo ai Convegni internazionali su Bakunin, sui «Nuovi Padroni», «Venezia 1984». Questa intervista sviluppa, necessariamente, solo una parte dei temi affrontati nei suoi scritti.

Tassare i ricchi. Uno scambio su capitale, debito e futuro

Moderatori: Entrambi sembrate pensare che il sistema economico e finanziario prevalente abbia fatto il suo corso e non possa durare ancora a lungo nella sua forma attuale. Vi chiedo di spiegare perché.

Thomas Piketty: Non sono sicuro che siamo alla vigilia di un collasso del sistema, almeno non da un punto di vista puramente economico. Molto dipende dalle reazioni politiche e dalla capacità delle élite di convincere il resto della popolazione che la situazione attuale è accettabile. Se esiste un efficace apparato di persuasione, non c’è alcun motivo per cui il sistema non debba continuare a esistere così com’è. Non credo che fattori strettamente economici possano precipitare la sua caduta.Karl Marx pensava che il calo del tasso di profitto avrebbe inevitabilmente portato alla caduta del sistema capitalistico. In un certo senso, sono più pessimista di Marx, perché anche in presenza di un tasso di rendimento del capitale stabile, diciamo intorno al 5% in media, e di una crescita costante, la ricchezza continuerebbe a concentrarsi e il tasso di accumulazione della ricchezza ereditata continuerebbe ad aumentare. Ma, di per sé, questo non significa che si verificherà un crollo economico. La mia tesi è quindi diversa da quella di Marx e anche da quella di David Graeber. L’esplosione del debito, in particolare di quello americano, è certamente in atto, come abbiamo osservato tutti, ma allo stesso tempo c’è un grande aumento di capitale, un aumento di gran lunga superiore a quello del debito totale. La creazione di ricchezza netta è quindi positiva, perché la crescita del capitale supera anche l’aumento del debito. Non dico che ciò sia necessariamente una buona cosa. Sto dicendo che non esiste una giustificazione puramente economica per sostenere che questo fenomeno comporti il collasso del sistema.

Gabriel Kuhn in dialogo con Matthew Wilson

Matthew Wilson (MW): Ci siamo incontrati per la prima volta circa quindici anni fa, in occasione di un seminario universitario per discutere della tua raccolta di opere di Gustav Landauer. Quindici anni prima un evento del genere sarebbe stato quasi inimmaginabile, ma a quel tempo sembrava del tutto naturale e normale; l’anarchismo, sembrava a molti di noi, aveva sostituito il marxismo nei movimenti sociali, ma anche, sempre più spesso, nel mondo accademico. Voglio esplorare con te lo stato attuale dell’anarchismo, ma prima di arrivare a questo, vorrei chiederti di riflettere su quel primo decennio di ciò che Graeber e Grubacic hanno chiamato «il secolo anarchico»: all’epoca, condividevi l’idea che l’anarchismo stesse rapidamente sostituendo il marxismo come ideologia dominante della sinistra? E, comunque ti sia sentito in quel momento, come vedi ora quel periodo?

Internazionale alla sezione

Perché mutualismo e non comunismo?

Molte persone non sanno cosa sia il mutualismo o perché una persona che si oppone al capitalismo e allo Stato lo scelga al posto del comunismo o del socialismo democratico. Sebbene ci siano molte ottime risorse in circolazione, questo saggio spiegherà alcune nozioni di base. Che cos’è il mutualismo? Allacciate le cinture.

Cos’è il mutualismo

Il mutualismo è una forma di socialismo radicalmente decentralizzato e basato sul mercato. In un’economia mutualistica, le multinazionali non esistono, le imprese sono di proprietà collettiva delle persone che vi lavorano e i servizi pubblici (acqua, energia, internet, ecc.) sono di proprietà delle comunità che servono. E, naturalmente, chiunque voglia lavorare per se stesso è libero di farlo.
Sia le imprese che i servizi pubblici sono gestiti democraticamente dai lavoratori sulla base della gestione paritetica, proprio come fanno migliaia di cooperative di proprietà dei lavoratori già esistenti. Nel caso dei servizi pubblici, la comunità servita decide cosa fare e i lavoratori decidono come farlo. In effetti, i mutualisti americani sono stati i primi promotori del movimento per le imprese cooperative di proprietà dei lavoratori e il successo di queste imprese - che pagano costantemente salari migliori, hanno condizioni migliori e restituiscono di più alla comunità - è una conferma della validità della prassi mutualistica. Molte migliaia di persone della classe operaia hanno una vita migliore grazie a questa eredità.
Non essendoci padroni o azionisti, i lavoratori possono pagare l’intero valore che il loro lavoro produce. Come dice Connolly, «i profitti sono i salari non pagati della classe operaia». I capitalisti chiamano questi salari non pagati «plusvalore» e il furto sistematico di questo plusvalore dalla classe operaia è uno dei grandi crimini del capitalismo. Nel mutualismo si pone fine al furto sistematico del plusvalore da parte dei capitalisti.
Invece di affidarsi ai capitalisti per il capitale iniziale delle nuove imprese, i mutualisti si sono tradizionalmente affidati alle cooperative di credito - Proudhon ha effettivamente inventato le prime cooperative di credito e altri mutualisti hanno perfezionato notevolmente l’idea partendo da lì. In effetti, la prevalenza delle Credit Union in Nord America (dove il mutualismo è tradizionalmente più forte) è un’eredità del mutualismo. Noterete che molte delle più grandi cooperative di credito sono di proprietà dei sindacati, e non è una coincidenza. Un tempo la Western Federation of Miners (uno dei sindacati che si sono fusi per formare l’IWW) possedeva un’intera rete di negozi e linee di rifornimento, gestite come cooperative mutualistiche, per assicurarsi che i minatori avessero accesso a cibo fresco di buona qualità anche nelle città minerarie più remote e per mantenere la gente in salute durante gli scioperi. In questo, e in molti altri esempi, le tattiche e le strutture mutualistiche e sindacali sono state storicamente complementari e di reciproco supporto.
Tornando alle cooperative di credito, le prime cooperative di credito mutualistiche sono state create per consentire ai lavoratori e agli artigiani di mettere insieme i fondi e fornire finanziamenti per avviare nuove imprese di proprietà dei lavoratori o per acquistare e convertire quelle esistenti. In questo modo, i mutualisti speravano di acquistare letteralmente i mezzi di produzione dai capitalisti e di soppiantarli, senza dover mai sparare un colpo o versare una goccia di sangue.
Nel mutualismo la forma più importante - e l’unica valida - di organizzazione sociale è il contratto o l’accordo volontario e reciprocamente vantaggioso, stipulato liberamente da due o più persone. Una volta raggiunto, l’accordo è vincolante, ma nessuno può essere reso parte di un accordo senza il proprio consenso. L’idea dei contratti liberi ridisegna tutto il resto, perché obbliga a riprogettare tutte le istituzioni sociali sulla base di unioni volontarie.

Cos'è l'eco-anarchismo?

«L’Umanità è la Natura che prende coscienza di se stessa».
Élisée Reclus (Clark and Martin 2013)

L’eco-anarchismo è la forma di ecologia politica che colloca il politico più profondamente nella storia e nella crisi della Terra. Ritiene che il nostro futuro e quello del pianeta dipendano dalla capacità di compiere il nostro destino come mezzo attraverso cui la Terra pensa e agisce per il bene comune di tutti gli esseri. Questa è la visione sviluppata dal geografo e filosofo francese del XIX secolo Jacques Élisée Reclus (1830-1905), il fondatore del moderno pensiero eco-anarchico (Clark e Martin, 2013). È stato il primo pensatore a concepire in modo dettagliato la storia della Terra come lotta per la libera fioritura dell’umanità e della natura e contro le forze di dominio che limitano tale fioritura. Questa è la visione che viene portata avanti oggi dalla tradizione eco-anarchica.
Il significato centrale dell’eco-anarchismo è evidente dall’etimologia del termine. Deriva dal greco antico oikos, che significa «famiglia» o «casa», e anarche, da ana-, che significa «senza», e arche, che significa vagamente «regola», «principio» o più precisamente «dominio». Inoltre, è una forma abbreviata di «anarchismo ecologico» e quindi presuppone un terzo termine, logos. Il logos di qualsiasi essere è la via e la verità di quell’essere, il suo modo di raggiungere il bene. L’eco-anarchismo rispetta quindi profondamente il logos dell’oikos, il suo ordine immanente e il suo autosviluppo, e cerca di difenderlo da ogni arche o forma di dominio.
Ma cos’è il nostro oikos? L’oikos è un tipo di comunità, in particolare quella che identifichiamo come la nostra casa. L’eco-anarchismo è quindi una forma di comunitarismo nel senso più forte del termine. Riconosce che siamo membri di comunità all’interno di comunità. I nostri oikoi comprendono la comunità intima primaria della famiglia e la piccola cerchia di amici stretti. Includono anche le nostre comunità locali e regionali, sia umane che più-che-umane. E comprendono, infine e soprattutto, l’oikos di tutti gli oikoi, la nostra casa globale, il nostro pianeta-casa, la Terra.
L’eco-anarchismo sostiene che dobbiamo iniziare con la massima urgenza a trasformarci in membri pienamente responsabili della Casa Terra. Tale vocazione è «eco-anarchismo» in quanto esprime un impegno ecologico primario a promuovere la fioritura della comunità terrestre e un impegno anarchico primario a difendere tale fioritura da tutte le forze distruttive che vorrebbero schiacciarla ed estinguerla.

John Dewey e David Graeber. Elementi di democrazia radicale nel pensiero pragmatista e anarchico

Quando si pensa all’idea di democrazia radicale, gli scritti di John Dewey non sono probabilmente il primo esempio che viene in mente. Il suo concetto di democrazia è stato invece spesso liquidato come «liberale» (Talisse 2007) o come un primo esempio di democrazia deliberativa (cfr. Bacon 2010). A fronte di queste nozioni, in questo articolo voglio esplorare la natura radicale della narrazione deweyana della democrazia. La mia tesi principale è che gli elementi radicali vengono in primo piano se analizziamo il concetto di democrazia di Dewey nel suo contesto storico. Questo può aiutarci a capire il suo concetto di democrazia radicale per quello che era: un intervento nel dibattito sul ruolo della democrazia per la sinistra. Partendo da questi presupposti, sviluppo e difendo la tesi che l’idea di democrazia di Dewey è radicale nella misura in cui è stata concepita contro una concezione marxista ortodossa della rivoluzione e della trasformazione sociale. L’articolo si conclude delineando come questo rifiuto del marxismo ortodosso avvicini Dewey a un resoconto anarchico della democrazia radicale, così come è stato recentemente formulato da David Graeber (2013), ed evidenziando i parallelismi tra i concetti di democrazia radicale di Dewey e di Graeber per quanto riguarda la priorità dei mezzi sui fini, il ruolo della deliberazione e la necessità di una riforma istituzionale.

Radici alla sezione

George Orwell

Il modo in cui sono oggi valorizzati gli scritti di George Orwell (nom de plume di Eric Arthur Blair, nato in India nel 1903 e morto a Londra nel 1950) e la sua figura di intellettuale offre spunti di riflessione preziosi per chi ha a cuore la critica dell’esistente e una definizione politica della libertà. Su questo sforzo pesa però una serie di pregiudizi frequenti quando sotto la lente finiscono i classici universali, quali indubbiamente sono Fattoria degli animali (1945) e 1984 (1949). Questo tipo di opere, infatti, è spesso ridotto a una manciata di icone strappate dal loro contesto e lette in pericolosa sintonia con la mercificazione dei prodotti culturali da parte dell’industria dell’intrattenimento. Si ricordi che, divenendo format di un reality televisivo, proprio il personaggio del Grande Fratello inaugurava venticinque anni fa la «cross-medializzazione» banalizzante dei testi letterari cui siamo ormai assuefatti, per cui, oltre a essere tradotti in sceneggiati radiofonici o film, questi diventano oggetto di riprese libere e private del loro potenziale critico da parte di chi commercializza lo storytelling più accomodante attraverso serie televisive, videogiochi, comunità di fan online, parchi turistici, linee di gadget, etc. L’esito è che il senso di libri e autori è derubricato come già noto, in anticipo su qualsiasi approfondimento, men che meno politico, e questo li sottrae all’interpretazione nel presente, permettendo a chiunque ne abbia l’arroganza di citarli senza conoscerli. Così, il «profeta» Orwell in Italia batte di gran lunga Voltaire e Pasolini come l’intellettuale più spesso citato a vanvera da demagoghi, fascisti e complottisti, gli stessi contro cui Orwell stesso non esitò a imbracciare il fucile. Una nemesi che invita a ripensare con urgenza il ruolo della cultura e le funzioni dello studio nella «società delle piattaforme».
Il filo rosso fra questa deriva e la lotta al totalitarismo che animò tutta la vita di Orwell si annoda intorno al concetto di verità e alla difesa di quest’ultima contro la propaganda del potere. D’altro canto, l’atteggiamento franco e demistificatorio è già evidente negli anni della formazione, prima al St Cyprian, poi a Eton, il college più prestigioso di Inghilterra, dove Orwell accede grazie a una borsa di studio. Senza di questa, la famiglia, benestante ma non troppo – la madre è figlia di un commerciante francese di legname dalla Birmania, il padre è ufficiale in Birmania per il Dipartimento Oppio dell’impero inglese – non avrebbe potuto permettersi l’iscrizione. Ma Orwell non tarda a scontrarsi col preside e abbandona gli studi per arruolarsi nella polizia imperiale. Staziona in Birmania dal 1922 al 1927, e quando abbandona la divisa dedicandosi a una scrittura impegnata in difesa degli ultimi – si veda il saggio Perché scrivo (1946) – egli reagisce in primo luogo alle mistificazioni della retorica con cui la corona giustifica le rapine dell’agenda colonialista. A tal riguardo scrive un romanzo (Giorni in Birmania, 1934) e alcuni articoli che a oggi circolano poco, sebbene anticipino le sensibilità degli studi postcoloniali puntando l’indice sulla sudditanza psicologica dell’oppresso, la nocività parassitica dei collaborazionisti e l’intossicamento identitario che la retorica imperialista induce nei pukka sahib, gli «uomini bianchi» che operano a livello militare, burocratico o imprenditoriale negli insediamenti coloniali. Di questi Orwell denuncia l’asservimento al suprematismo inglese che, se da una parte legittima le loro violenze sulle popolazioni indigene, dall’altra li costringe a fingersi superiori quando sanno benissimo di non esserlo, sviluppando una sorta di doppio-pensiero schizofrenico che prefigura quello tematizzato in 1984.
È questo l’Orwell più attuale e avvincente, quello che mette a nudo le contraddizioni psicologiche con cui formuliamo le nostre idee di verità e di normalità, troppo spesso obliterando i condizionamenti economici e del potere. Sono in tal senso irrinunciabili i suoi reportage autobiografici: Senza un soldo a Parigi e a Londra (1933), resoconto in tonalità punk di un periodo passato come sguattero e barbone; La strada di Wigan Pier (1937), ritratto etnografico della classe operaia inglese; Omaggio alla Catalogna (1938), disanima della sua esperienza di volontario in Spagna dove accorre per difendere la repubblica dal colpo di stato franchista, fermare l’avanzata dei fascismi europei e supportare una rivoluzione socialista, ma poi finisce per denunciare la repressione stalinista che avversa questa opzione per ragioni di equilibrismo sullo scacchiere internazionale. Dopo la grande delusione spagnola Orwell scrive il suo romanzo più bello, Una boccata d’aria (1939), una critica della modernità capitalista sospesa fra nostalgia swiftiana e ironia anarchica, lo stesso passatismo apocalittico che ispirerà i già citati capolavori della maturità: la favola Fattoria degli animali e la fantascienza di 1984.
Resta infine assurdo identificare nel socialismo l’arcinemico totalitario di questi libri. È il rigore e l’efficientismo moderno, assieme all’automazione dei processi produttivi e all’omologazione culturale e sociale, il Moloch contro cui Orwell chiamò a reagire contrapponendovi la decency, termine con cui condensava semplicità, franchezza, sobrietà e generosità. Fino alla fine dei suoi giorni, quando stilerà un elenco di diritti inalienabili per la nascente «Lega per la libertà e la dignità dell’uomo», egli insisterà sulla promozione di organismi sociali che proteggano gli individui senza interferire con la loro libertà, ritenuta il più sacro dei patrimoni umani.

Emma Goldman

«Se non posso ballare, non è la mia rivoluzione»: è questa, di certo, la citazione più conosciuta di Emma Goldman. Per l’esattezza, come probabilmente non molte e molti sanno, Goldman non ha mai pronunciato o scritto queste esatte parole, tuttavia esse riassumono sagacemente un episodio significativo della sua vita. Secondo quanto racconta all’interno della propria autobiografia, una sera un compagno la rimprovera per la passione che nutre verso il ballo, una caratteristica da lui ritenuta frivola e inadatta a una militante anarchica. Goldman, furente di rabbia, gli risponde: «Voglio la libertà, il diritto all’espressione di sé stesse e sé stessi, il diritto di ognuna e ognuno alle cose belle e radiose». Dal canto suo, infatti, è fermamente convinta che la causa dell’anarchismo non esiga la rinuncia alla gioia, bensì esalti il desiderio di un’esistenza piena e appagante, libera da ogni forma di oppressione e dominio. Oltre a racchiudere il fine e il significato più profondo delle lotte libertarie di ieri e di oggi, questo aneddoto offre degli spunti interessanti per ripercorrere la vita e il pensiero di Emma Goldman e per interrogarsi su come quest’ultimo si possa applicare alle necessità del tempo presente. Nata nel 1869 a Kovno, nei territori dell’Impero russo, in una famiglia ebraica, all’età di sedici anni Goldman parte alla volta degli Stati Uniti. A New York inizia ad avvicinarsi agli ambienti anarchici e ben presto diventa una delle personalità più carismatiche del movimento. In quanto «donna più pericolosa d’America» – così come la definiscono le autorità –, nel tempo giunge a pagare il prezzo dei propri ideali con il carcere e l’esilio. Dopo essere stata deportata in Russia, ha modo di osservare da vicino le conseguenze della Rivoluzione di ottobre: nonostante l’entusiasmo iniziale, nel corso degli anni rimane profondamente delusa dalle pratiche di accentramento e repressione attuate dal governo bolscevico, tanto da schierarsi apertamente contro di esse. Questo perché Goldman ritiene che le istanze rivoluzionarie non possano prescindere dalla rivendicazione del diritto di autodeterminazione degli individui. Infatti, una delle convinzioni più importanti alla base delle sue idee politiche e delle sue scelte di vita è che la liberazione individuale rappresenta non solo un fine in sé, ma anche un passo cruciale verso un radicale mutamento della società. Più nello specifico, anticipando alcune delle riflessioni sulle quali si fonda il noto slogan femminista «il personale è politico», Emma Goldman afferma che la creazione di un nuovo ordine sociale deve partire dall’emancipazione delle singole persone. Sostiene, infatti, che la schiavitù causata dal Capitale, dallo Stato e dalla Chiesa si manifesta tanto negli aspetti materiali quanto in quelli più intimi della vita quotidiana, creando un fitto intreccio di subdole costrizioni.
Riconoscendo, dunque, la multiforme e complessa natura del dominio, Goldman si batte con lo stesso fervore su più fronti, adottando un approccio che oggi definiremmo intersezionale. All’interno dei saggi e degli articoli da lei scritti e nel corso dei suoi numerosi comizi, le parole diventano un’arma per contrastare la guerra, la leva militare e le istituzioni carcerarie e per rivendicare, al contempo, i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori e la libertà delle donne.
Tra tutte le sue battaglie, quest’ultima rappresenta di gran lunga il suo contributo più innovativo. A differenza del resto del movimento anarchico – convinto che le disuguaglianze tra i sessi si possano risolvere solamente con un cambiamento sistemico – e delle femministe della prima ondata – decise a conquistare il suffragio femminile –, Emma Goldman sostiene che la liberazione delle donne dipende anzitutto da un processo di rigenerazione interiore. Infatti, nessun miglioramento sul piano economico-sociale o politico può renderle completamente libere, se la loro intimità rimane intrappolata all’interno di barriere fatte di convenzioni e pregiudizi moralistici. In un sistema che subordina le donne agli uomini, l’amore viene soffocato e il sesso viene inteso solamente come parte del vincolo matrimoniale, all’interno del quale i suoi unici fini sono il compiacimento dei mariti e la procreazione di figlie e figli. Oltre a ciò, la capacità riproduttiva delle donne viene sfruttata, da un lato, per produrre nuove generazioni di forza-lavoro con lo scopo di arricchire le tasche del capitalismo e, dall’altro, per rimpolpare le file dei militari pronti a difendere la patria. Per questi motivi, Goldman ritiene fondamentale che ogni donna si riappropri della sua sessualità e dei suoi sentimenti, prendendo coscienza della propria persona e delle sue molteplici possibilità. Come? Pur riconoscendo la singolarità delle esperienze individuali, Emma Goldman invita le donne a trasformare le proprie relazioni in uno spazio di lotta, amando senza restrizioni, scegliendo autonomamente i propri partner e decidendo in libertà se e quando rimanere incinte. Inoltre, al fine di spezzare le catene che le legano ai ruoli di mogli e madri, Goldman ritiene che la contraccezione rappresenti uno strumento molto utile. È per questo che decide di attivarsi per promuovere in prima persona il controllo delle nascite, dapprima contrabbandando contraccettivi e successivamente dando vita a un vero e proprio movimento di massa, il Birth Control Movement.
Ad oggi sono trascorsi ottantaquattro anni dalla sua morte, ma la sua «furiosa passione di vivere» brilla ancora come un faro in un orizzonte plumbeo. Di fronte a problemi sistemici di portata globale, Emma Goldman ci ricorda l’importanza del contributo di ciascun individuo nel qui e ora. Non saranno, infatti, utopie astratte o rigidi programmi a determinare il cambiamento della società, ma intime rivoluzioni in ognuna e ognuno di noi, nel modo di pensare e pensarci, continuando a seguire con fiducia gli ideali di libertà.

Ricordando Colin Ward

Il 14 agosto di quest’anno Colin Ward avrebbe compiuto cento anni. Nato il 14 agosto del 1924 e morto l’11 febbraio del 2010, l’anarchico inglese è il principale ispiratore di questa rivista. A lui abbiamo dedicato un profilo nella rubrica «Radici» nel numero 2 del 2022 (giugno), a cui rinviamo per una prima introduzione alla sua vita e al suo pensiero.
Le sue riflessioni, così come i suoi articoli e i suoi libri, costituiscono un riferimento continuo per la redazione di «Semi sotto la neve» e sono forieri di stimoli sempre attuali per chi, come noi, cerca, molto modestamente, ma tenacemente, di vivere un’idea libertaria in modo nuovo e propositivo.
Per ricordarlo ancora una volta, e non sarà l’ultima, vi proponiamo alcune frasi tratte dai suoi scritti, particolarmente significative, che, dal nostro punto di vista, si prestano maggiormente a essere utilizzate e interrogate al fine di delineare un’idea anarchica alla quale facciamo idealmente riferimento.
Colin Ward si è occupato di molti temi, oltre che di anarchismo, come l’educazione, l’urbanistica e l’architettura. Per chi volesse approfondire poi maggiormente il suo pensiero pubblichiamo una bibliografia dei testi tradotti in italiano e disponibili. Per cogliere l’evoluzione della sua vita e del suo pensiero suggeriamo la lettura del volume curato da David Goodway: Colin Ward, Lo sguardo anarchico, elèuthera, Milano, 2021.

Recensioni alla sezione

Parlando di economia, anarchia e cattolicesimo

Il mio libro «Economia e persona tra pensiero libertario e pensiero cristiano» (FrancoAngeli, 2024) propone un confronto fra pensieri, quello libertario-anarchico e quello della teologia sociale della Chiesa cattolica. Pensieri che possono essere lontani o vicini tra loro nel trattare della persona e dell’economia, ma che sono comunque accomunati dal coprire posizioni minoritarie nell’economia, nella politica e nella religione. Pensieri che invece meriterebbero entrambi maggiore attenzione, sia essa di approvazione oppure di critica. Comunque non dovrebbero essere ignorati.
Leo Ferré è un cantautore monegasco anarchico citato da Andrea Riccardi (Riccardi 2022), il fondatore della comunità di Sant’Egidio, per la canzone Monsieur tout blanc, che critica papa Pio XII. Ferré in Les Anarchistes apre la canzone con un verso provocatorio, ma vero: coloro che sostengono l’idea anarchica «non sono l’uno per cento, ma credetemi esistono». E prosegue con l’indicazione che gran parte di loro sono in Spagna, chiedendosi in maniera retorica «chi lo sa mai perché», dato il ruolo importante che gli anarchici ebbero in Spagna dal 1936 al 1939 (Cuevas Casaña, Gálvez Muñoz, Torró Gil, 2023). Per analogia, si potrebbe affermare che coloro che sostengono l’idea della Dottrina Sociale della Chiesa «non sono l’uno per cento, ma credetemi esistono». E si potrebbe proseguire con un’affermazione – più intuitiva che documentabile – che la grande parte di loro non sono nella Chiesa, ancora chiedendosi «chi lo sa mai perché».
Il libro si sviluppa partendo dalla constatazione che nei pensieri libertario e cristiano ricorrono tre idee «grandiose»: libertà, governo e diversità.
La Bibbia indica la libertà come un valore primario: la libertà di Israele nell’Antico Testamento e la libertà annunciata da Cristo nel Nuovo Testamento. L’idea libertaria si compendia bene nell’affermare «un’idea esagerata di libertà», come la definisce Giampietro N. Berti (Berti 2015) con una felice espressione, che vuol essere di apprezzamento, non di critica. Ma è anche Karl Popper che afferma: «L’anarchismo è un’esagerazione dell’idea di libertà», mentre è Bakunin stesso che si confessa: «Sono un amante fanatico della libertà» (Bakunin e Popper in Bertolo 2017: 81). Il Vangelo e il pensiero libertario, dunque, si concretano entrambi nel rifiuto di ogni potere dominante terreno, anche quello specifico di un governo. La volontà dell’anarchico di «Né ubbidire, né comandare» risuona nel ritornello del «Canto dei malfattori», testo di Attilio Panizza: «liberi vogliam vivere, più non vogliam servir», che troviamo riportato in copertina del libro di Miro Gori (Gori 2022). Il Vangelo, dal suo canto, evoca il dominio come modo di praticare il potere, per suggerirne invece l’opposto: «Voi sapete che i governanti delle nazioni dominano su di esse e i capi le opprimono. Tra di voi non sarà così» (Mt 20). L’idea dell’anarchia di negare il governo espressione di uno Stato-nazione è nota, ma è spesso riferita superficialmente e sovente distorta, poiché in effetti è ben più articolata e complessa di una semplice negazione. Il libro si sofferma su questa idea, passando dal pensiero classico al pensiero post-classico dell’anarchia, con riferimento a Gustav Landauer. Per Landauer «la rivoluzione non era un atto, ma un processo, che conteneva una dimensione spirituale orientata a una vasta riforma intellettuale e morale» (Ragona in Landauer 2012: 18-19). Dunque, un processo «lento» che si realizza dal basso con un’autogestione diffusa e progressiva di forme simili a cooperative. Recentemente, Francesco Codello ha riassunto in questi termini il pensiero di Landauer: «Lo Stato non è qualcosa che può essere distrutto attraverso una rivoluzione, ma è una condizione, un certo tipo di rapporto tra gli esseri umani, un tipo di comportamento; lo possiamo distruggere creando altri rapporti, comportandoci in modo diverso» (Codello 2022: 110 e 112). In pratica, si tratterebbe di lasciare a una miriade di comunità, su scala quanto mai variata (Bookchin 2017), comunque federate, la capacità di esprimersi su problemi concreti di cui alcuni con dimensioni locali e altri con dimensioni più generali (Graeber 2020). Quando, posti di fronte a problemi generali, potrebbe anche riapparire lo Stato: «Se nel periodo pre-rivoluzionario è sufficiente negare ideologicamente lo Stato, nel periodo post-rivoluzionario bisogna sostituirlo positivamente [per] quelle funzioni generali di coordinamento della società civile che lo Stato trasformava in dominio» (Berti 1979: 87). In un recente dialogo tra gli anarchici Matthew Wilson e Gabriel Khun apparso in questa rivista (2024, n. 7), Wilson getta sul piatto proprio il tema dello Stato con questa riflessione: credo che la «pandemia abbia contribuito a consolidare in alcuni la sensazione che l’anarchismo [classico] abbia i suoi limiti e che gli Stati siano necessari per momenti come questo, se non altro. La gente ha già dimenticato l’aiuto reciproco che ha permesso di sfamare le persone quando lo Stato e il mercato non riuscivano a tenere il passo, ma nessuno dimenticherà la creazione dei vaccini, i programmi di sperimentazione a livello nazionale, persino il potere dello Stato di imporre i lockdown», così come c’è necessità di uno Stato per affrontare i problemi generali del cambiamento climatico. Khun reagisce affermando: «Ma che cos’è lo Stato? [Oltre alla pandemia e alla crisi climatica] è sufficiente guardare ai compiti quotidiani di cui dobbiamo occuparci collettivamente, produzione e distribuzione del cibo, servizi sanitari, trasporti, energia e via di seguito […] che richiedono istituzioni in qualche modo centralizzate, ma queste istituzioni devono per forza assomigliare a uno Stato? Non credo» (Wilson 2024).
Lo Stato immaginato da Landauer nel 1895, anticipato da Berti nel 1979 e recentemente concretizzato da Wilson (2022) e da Khun (2018) è pur tuttavia un’idea che non contrasta con le affermazioni dell’anarchia classica dello stesso Kropotkin. Nel 1892, egli rilevava l’efficienza dei salvataggi in mare della British Life-Boat Association, affermando la migliore capacità, rispetto alle navi di Stato, di questa libera autogestione nel salvare in mare vite umane. Però, mentre l’associazione muove persone che, motivate dal mutuo soccorso, volontariamente porgono aiuto, tuttavia – continua Kropotkin – essa richiede le infrastrutture dello Stato, porti sicuri e aperti, per completare il salvataggio (Kropotkin 1978). Cionondimeno, lo Stato cui queste idee si riferiscono è totalmente diverso da quello che conosciamo, tanto da poterlo chiamare con altro nome: Consiglio, Confederazione, Comune o Comunità, con diverse specifiche territoriali. In questo caso, mutare denominazione potrebbe non essere solo questione nominale (Candela, Senta 2017; Candela 2021). Anche nell’anarchismo di Buber (Buber 1950), che continua il pensiero di Landauer dopo la sua morte violenta, la rivoluzione verso una società senza Stato parte da una cooperazione dal basso per il consumo e per la produzione, quindi dalla modifica nel sentire di persone capaci di realizzare, con la «saggezza» di liberi accordi e mutuo sostegno, un’istituzione di comunità tutt’affatto diversa dallo Stato-nazione.
Il discorso, tuttavia, è complesso, perché una tale rivoluzione di cultura non è facile da realizzare, infatti può incontrare forti resistenze dato che implicherebbe l’estinzione dello Stato-nazione. Uno dei primi presidenti degli USA affermò: «Lo Stato esiste per educare il saggio, e con la comparsa del saggio lo Stato muore. Quando appare il [saggio], lo Stato non è più necessario» (Emerson 2012: 89). Allora, è lo Stato stesso che potrebbe «ostacolare» il processo di trasformazione. Come si può opporre ogni gruppo dominante che voglia resistere alla perdita di un dominio che esercita per tramite dello Stato. In ogni modo, sono sempre gli incentivi impliciti nel capitalismo che, alimentando l’egoismo e non l’altruismo, creano assuefazione alla logica dell’Io piuttosto che alla logica del Noi (Candela 2021). La marcia verso un traguardo diverso è un percorso con ostacoli posti dallo Stato: l’idea dell’anarchismo nei confronti del ruolo dello Stato si può anche modificare con l’anarchismo post-classico, ma questa attenta riflessione dell’anarchia classica non perde di valore.
Proprio sul tema di un potere dominante che si concretizza nello Stato, il libro intende annotare «curiosi» punti di intersezione fra le Sacre Scritture e alcuni brani libertari e anarchici. Due sono le eco ricordate nel libro. Una prima eco è fra le encicliche di alcuni papi medievali e gli scritti di molto successivi di Proudhon (abbiamo tratto questa indicazione da Alessandro Barbero) – scriveva Gregorio VII: «i re e i duchi hanno […] preteso di dominare i loro pari, gli uomini, con cieca avidità e intollerabile presunzione» (Barbero 2016: 10). Una seconda eco si riscontra nelle prerogative di potere indicate da Samuele nell’Antico Testamento, quando mette in guardia gli ebrei dal volere un re, e la citatissima definizione di Stato che è di Proudhon (Candela 2023): abbiamo tratto questa indicazione da Rutger Bregman (Bregman 2020). Infatti è noto che Proudhon ben conosceva le Sacre Scritture – abbiamo tratto questa indicazione dal cardinale de Lubac (2017), studioso di Proudhon.
A queste due eco esplicitamente sviluppate nel libro – cui rinviamo – vorremmo aggiungerne una terza che proviene dal Vangelo di Matteo. Sono le parole di Gesù verso l’agire degli scribi e dei farisei che occupano la cattedra di Mosé: «Dicono e non fanno. Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito. Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini […,] amano posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare “rabbi” dalla gente» (Mt, 23). Questa è una descrizione del «politico» che potrebbe essere condivisa da ogni anarchico (si pensi a Kropotkin), ma anche da ogni liberale (si pensi a von Hayek) – che ha tanti riscontri nel sistema politico del presente. Infatti, Kropotkin scrive: «La legge [dei governi …] ne approfitta per introdurre, generalmente dissimulandola, qualche nuova istituzione nell’interesse della minoranza dei governanti e degli uomini di parte» (Kropotkin 1952: 70); e Hayek sostiene che: «Se la democrazia diviene sinonimo di governo della maggioranza dotato di potere illimitato, io non sono democratico e considero anzi un tale governo pernicioso» (Hayek 2000: 413).
La Dottrina Sociale della Chiesa, pur se a volte «dubita» dello Stato, più spesso continua a chiamarlo in causa auspicando una sua azione sociale. Sarebbe bene, allora, soffermarci sulla differenza fra i due pensieri quando si rivolgono al ruolo dello Stato. Da una parte permane la fiducia della Dottrina Sociale della Chiesa che possa esistere uno Stato che non sia impersonato da scribi e farisei, ma da persone che perseguono il bene comune, fiducia che si scontra con la convinzione dell’anarchico che il governo di uno Stato non possa che essere impersonato da scribi e farisei. In economia queste visioni si traducono nella contrapposizione fra uno Stato a volte benevolente e uno Stato sempre di parte.
Il terzo importante elemento di raffronto da cui siamo partiti è la diversità, non solo come sentimento di tolleranza ma come vera ricchezza di una comunità. Un’idea che è sia nel programma dei Gruppi anarchici federati, negli anni Settanta del Novecento (G.A.F. 1976), sia nel documento sulla fratellanza firmato nel 2019 congiuntamente da papa Francesco e dal Grande Imam di Al-Azhar, prima dell’enciclica Fratelli Tutti. Per i GAF alla «stereotipata uniformità dei ruoli si sostituisce la diversità naturale nella più completa uguaglianza», analogamente per padre Alex Zanotelli il documento della fratellanza sostiene la «libertà di essere diversi» (Zanotelli 2022): «La libertà è un diritto di ogni persona: ciascuno gode della libertà di credo, di pensiero, di espressione e di azione […] la libertà di essere diversi. Per questo si condanna il fatto di costringere la gente ad aderire a una certa religione o a una certa cultura, come pure di imporre uno stile di civiltà che gli altri non accettano» (Documento sulla fratellanza umana. Per la pace mondiale e la convivenza comune, 2019). In entrambe le fonti si afferma che la «diversità», intesa come confronto senza scontro, come tolleranza senza confusione di valori, è un’altra parola che accomuna l’anarchia e la religione. Il tutto senza mai sottovalutare come questa liaison parta da fondamenta del tutto diverse tra loro per l’idea ispiratrice, come peraltro era già evidente a proposito delle parole libertà e governo. Infatti, il libro invita più volte a riflettere sul dato di fatto che non dobbiamo mai dimenticare: i due pensieri presentano punti di partenza diversi. Il pensiero cristiano ha il suo fondamento teologico in un Dio che, per amore, ha creato uomo e donna destinati a una vita che si realizza con gli altri. Il pensiero libertario ha il suo fondamento immanente nella «morale della solidarietà» di Kropotkin (Kropotkin 2017) e Errico Malatesta (Malatesta 1975), che si realizza in una vita con gli altri, in liberi accordi che non abbisognano dello Stato, almeno di uno Stato che ha il monopolio legale della violenza (nell’interpretazione di Weber 1965, 1997). Sono fondamenti distanti fra loro, ma che si intersecano, avvicinandosi, in un’economia dove la persona acquisisce un’etica, una cultura che accantona competizione e logica dell’Io per agire secondo cooperazione e logica del Noi. Per fare il punto su questa distanza o vicinanza, possiamo richiamare quanto espresso nella lettera che don Lorenzo Milani scrive al comunista Pipetta: «il giorno che avremo sfondata insieme la cancellata di qualche parco, installata insieme la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordatene Pipetta, non ti fidar di me, quel giorno io ti tradirò» (Milani 1950). Padre Ernesto Balducci chiude il pensiero di don Milani, con un’idea molto vicina a quella anarchica; la libera educazione è importante, ma la liberazione passa anche per l’avversione all’economico e al politico, allorché l’economia diviene sfruttamento e la politica diviene dominio (Balducci 2002).
Dunque, la logica del Noi è indicata dal libro come un’intersezione di rilievo tra i pensieri libertari e cristiani, logica che si riscontra qualora la logica di comunità sia intesa nella dimensione del Noi-tutti, quella che nell’elaborazione di ogni soluzione non lascia mai degli esclusi fra tutti coloro che sono «toccati» da quel problema. Questa è la morale anarchica che si realizza nella logica che guida una federazione di comunità libertarie autogestite secolarmente efficienti (Candela 2014; Candela, Senta 2017; Candela 2021), oppure lo spirito cattolico che afferma un «Noi grande, non piccolino», come vuole l’Economy of Francesco. Il Noi-tutti della morale anarchica e il Noi-grande di Fratelli Tutti sono totalmente differenti dal parochialism, che è il noi non di tutti ma di gruppi versus altri gruppi. È questa una logica del Noi profondamente diversa dal campanilismo, dal populismo e dal nazionalismo, che chiude i tempi della competizione e apre quelli della cooperazione, che sostiene l’affermarsi di una persona libera versus la coercizione del dominio dell’uomo sull’uomo, di gruppi su gruppi. Non l’uno contro l’altro ma l’uno con l’altro, tassello comune del pensiero libertario e della Dottrina Sociale della Chiesa.
Gianfranco Ravasi, nel suo «Breviario» («Il Sole24ore», Domenica, 10 marzo 2024) propone un’efficace sintesi tra pensieri diversi che hanno la comune esigenza di sposare una logica del Noi-tutti. Ravasi parte da una citazione del 1926 del Mahatma Gandhi, la «grande anima» vicina al pensiero dell’anarchia religiosa di Tolstoj (Tolstoj 2019), che comunque conosceva le idee di Kropotkin: «Se potessimo cancellare l’Io e il Mio dalla religione, dalla politica, dall’economia e così via, saremmo presto liberi e porteremmo il cielo in terra» (Gandhi 2019). Purtroppo però – afferma Ravasi – «alligna in politica, in economia, nella stessa religione e nell’esistenza personale l’erba maligna dell’interesse privato come norma unica ed esclusiva», in altri termini domina la logica dell’Io piuttosto che la logica del Noi. Mentre nel Vangelo – continua – è ben chiaro il monito di Gesù: «Se qualcuno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso» (Mr 8,34); «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv, 12,24). Dal nostro punto di vista, la logica di comunità è il tratto comune di certi pensieri dell’anarchia, l’anarchia socialista e l’anarco-comunismo, e di certe teologie della Chiesa cattolica, comunque è certamente ciò che si legge nella Dottrina Sociale della Chiesa.
Il testo si sviluppa attorno all’idea di un’antropologia della logica del Noi, divisa in tredici capitoli trattati in quattro parti. La Parte prima introduce i principi fondanti del pensiero libertario e anarchico, in molte delle sue tante articolazioni. La Parte seconda si sofferma su una ricostruzione storica delle idee libertarie, la storia delle eresie, fino all’anarco pacifismo e alla cosiddetta anarchia religiosa di Lev Tolstoj e Simone Weil. La Parte terza è dedicata al tema dell’economia e della persona nelle Sacre Scritture, Bibbia e Vangelo. La Parte quarta considera la storia della Chiesa cattolica seguendo le parole dei papi dal Medioevo fino all’Economy of Francesco.
Nel loro declinarsi in campo sociale ed economico, i due pensieri presentano vari punti d’intersezione, seppure di diversa natura: veri incontri, semplici sfumature, accostamenti puramente lessicali, coincidenze di fatto. Il libro vorrebbe suggerire riflessioni che scaturiscono da alcune delle intersezioni rilevate, che dobbiamo notare – come ogni pensiero in evoluzione – proseguono anche dopo la «consegna» all’editore del libro, giugno 2023. Vogliamo quindi riferirne due coincidenze recentemente riscontrate.
La prima riguarda la ripubblicazione del saggio autobiografico di Dorothy Day (Day 2023), con l’introduzione di papa Francesco. L’anarchica americana, che ha grande spazio nel libro, è stata proposta per la santificazione dalla Chiesa e dichiarata serva di Dio. Il Papa, dopo avere rilevato che il riferimento alla vita di Dorothy Day è stato sostenuto da Benedetto XVI, tiene a sottolineare la caratteristica interessante della sua vita: l’appartenenza al mondo dell’impegno sociale e sindacale, donando il proprio tempo al servizio degli altri (anche prima di giungere alla fede). Quindi – sostiene Bergoglio – Dorothy Day è una donna libera, un’attivista che dà il suo lavoro per «un amore che sovrasti l’odore nauseante dell’egoismo» (Day 2023: 12). La vicinanza di Day al pensiero anarchico è esplicitamente riconosciuta nella «Nota del curatore» di Robert Ellsherg: «Per anni [Dorothy Day] si era messa in una eclettica cerchia di socialisti, anarchici, letterari bohemienne e ribelli di ogni specie, uniti soprattutto dall’opposizione allo status quo e dal desiderio di un mondo migliore» (Day 2023: 17). Forse anche per questo, la conclusione di papa Francesco torna, infine, a livello teologico affermando che «Il Signore brama cuori inquieti, non anime borghesi che si accontentano dell’esistente» (Day 2023: 10).
Un secondo spunto di riflessione è il recente rilievo che hanno ricevuto alcuni brani di Laudate Deum di papa Francesco sul problema del clima: «Come al solito, sembrerebbe che la colpa [della crisi climatica] sia dei poveri. Ma in realtà […] le emissioni pro-capite dei Paesi più ricchi sono di molto superiori a quelle dei più poveri» (LD 1,9); sono infatti responsabili del degrado del clima le «grandi potenza economiche, che si preoccupano di ottenere il massimo profitto al minor costo e nel minor tempo possibile» (LD 1,13); per concludere che «si tratta di un problema umano e sociale in senso ampio e a vari livelli. Per questo si richiede un coinvolgimento di tutti» (LD 5,58). Alle sue affermazioni il Papa fa seguire la denuncia: «Sono costretto a fare queste precisazioni, che possono sembrare ovvie, a causa di certe opinioni sprezzanti e irragionevoli». Tuttavia, la sua denuncia non rimane generica, senza referenti, poiché il Papa conclude che tali opinioni le «trovo anche all’interno della Chiesa cattolica» (LD 1,14). Orbene, a completamento del nostro punto di vista sul pensiero comparato libertario e cattolico, è importante annotare che questi passi sono esplicitamente richiamati nel mensile libertario «Cenerentola» (novembre 2023), con il rilievo redazionale: «Se lo dice lui».
Sia perché non è facile l’interpretazione dei segnali raccolti nel libro – tuttavia non pochi – sia perché questi raffronti fra anarchia e cattolicesimo sembrano ancora in evoluzione, una conclusione sulle intersezioni dei pensieri libertari e cattolici è difficile da trarre. Forse non è neppure necessaria, per pensieri che credono entrambi nella libertà e nella diversità, che preferiscono sviluppare idee non ideologie, perché le ideologie sono sempre a rischio di imporsi, dato che pretendono di essere uniche e sono la «scusa» dei poteri dominanti: così si esprime l’anarchia (Malabou 2024), così si esprime la Chiesa: «la Chiesa non ha e non può avere ideologie» poiché le ideologie sono steccati che «amplificano odio e intolleranza» (Francesco 2024: 80 e 167). Cionondimeno, il libro chiama a riflettere su questo confronto a 58 anni dal Concilio Vaticano II (1963-1965) e con l’affermarsi di una corrente di pensiero libertario che si ispira agli scritti di Colin Ward apparsi sulla rivista «Anarchy» dal 1961 al 1970. Ward (Ward 2023) parla di un anarchismo pragmatico (e rispettabile) che non ha bisogno dell’ora «fatale» dell’insurrezione, ma che sa generare dal basso una diversa società, una rivoluzione progressiva e praticabile. È così che si può osservare quella convergenza effettiva di azione – di cui parlava don Milani – fra l’autogestione anarchica, un anarchismo organizzato in cui agiscono persone che prendono iniziative prescindendo dello Stato, e il rilievo che la Dottrina Sociale della Chiesa dà ai Corpi sociali intermedi, un livello di comunità in cui agiscono persone che prendono iniziative senza aspettare gli «incentivi» di Corpi sociali superiori. Per questo anarchismo e per questa teologia sociale, autogestione e Corpi sociali intermedi sono utopie capaci di un’effettiva rivoluzione lenta e progressiva. Ciononostante, gli anarchici, i libertari e la Chiesa dell’economia di Francesco danno un valore positivo all’utopia: l’ultimo comma del «Patto per l’economia di papa Francesco con i giovani» (2022), stipulato al termine del convegno di Assisi, afferma: «Noi in questa economia crediamo. Non è un’utopia, perché la stiamo già costruendo», e commentando il pacifismo anarchico di Maria Luisa Bernieri, Antonio Senta afferma: «I critici dell’idea anarchica mettono spesso in evidenza la dimensione utopica di quest’ultima, tuttavia per gli anarchici il termine utopia è, va da sé, tutt’altro che negativo […] è un processo che non conosce soste perché muove continuamente da un obiettivo al successivo» (Senta, Postfazione in Berneri 2022: 465). Tuttavia chiarendo che ciò è vero solo e solamente se le persone si muovono nella direzione delle utopie qui e subito. Infatti, se i tempi delle iniziative da intraprendere sono rinviati a un lontano futuro, le utopie per l’anarchia si trasformano in una menzogna immanente e per la Chiesa in un incanto rinviato a una futura vita trascendente, post mortem.
La violenza di Stato, Chiesa e anarchia è considerata esplicitamente nel testo, poiché questo è un tema che coinvolge la loro storia, verso cui non bisogna nascondersi. Anche in questo caso, l’arte aiuta a fare il punto su ciò che il libro sostiene. Il registra Ken Loach, vicino al pensiero libertario e al mondo di un lavoro umiliato e sfruttato – ricordiamo i suoi film «Terra e libertà» (1995) e «Bread and roses» (2000) – nella pellicola «Il vento che accarezza l’erba» (2006) avanza una drammatica descrizione della violenza che ha coinvolto i moti di indipendenza dell’Irlanda del Nord. A Loach la violenza appare «inevitabile» nel conflitto di ideologie di Stato, tuttavia la sua posizione diviene chiara nella scena finale, allorché un messo annuncia a una donna, mentre è al lavoro nella sua casa e sulla sua terra – una donna che in precedenza aveva subito aggressione e oltraggio – annuncia l’orribile violenza di un fratricidio «politico». La donna reagisce affermando: «Va fuori dalla mia terra», rivolto all’uomo che in quel momento rappresenta fisicamente la violenza. Allora, coniugando l’anarchia pacifista e religiosa con l’enciclica Fratelli tutti, vorremmo virare al generale, particolarmente in questo tempo di guerra mondiale diffusa, l’urlo di rivolta di quella donna contro la violenza: «Vai fuori dalla nostra Terra», dove la «mia» cambia in «nostra» perché la terra è quella con la T maiuscola, la terra di Noi-tutti. È questa la logica di un noi totale e solidale che può eliminare l’egoismo, che è il tratto comune di ogni violenza. In un recente numero di questa rivista (2023, n. 6), i redattori della casa editrice elèuthera di Milano – un editore di «ispirazione libertaria» – hanno affermato che il fine del loro lavoro è riportare l’anarchismo nel presente per «permettere alle voci anarchiche di risuonare forti e chiare al di fuori delle mura del ghetto (un ghetto in cui peraltro non ci hanno rinchiuso, ma in cui ci siamo rinchiusi)». Parlare quindi con l’antropologia, la sociologia, l’ecologia, l’economia, la biologia per riscontarvi concomitanze. Questo è proprio quello che il libro vorrebbe fare per l’economia, la sociologia e l’antropologia, partendo da pensieri minoritari, come quello libertario e quello cristiano-cattolico.
Nel parlare con l’economia, la proposta del libro è di muovere dall’economia del homo oeconomicus verso un’economia antropologica, dove acquista spazio una ricerca che trae spunti di analisi dall’antropologia. Assumendo così una visione più ampia di quella di una persona mossa in economia politica dal self interest e in politica economica di uno Stato che agisce come uno Stato benevolente. L’economia antropologica, infatti, deve considerare la persona motivata dall’esclusivo interesse dell’Io ma anche dell’altruismo del Noi, fra cui ci sono l’uomo e la donna che perseguono l’etica religiosa o l’etica della morale anarchica… e quanto altro. Modelli diversi che studiano, comparandole, logiche di comportamenti e di società diverse per vedere dal confronto chi, avendo fatto scelte differenti, «si troverà peggio» (Malatesta 2009), ovviamente in termini di felicità e non di Prodotto Interno Lordo (PIL).
Un’economia antropologica, dunque, che sviluppi modelli in cui intervengono lo Stato o l’autogestione, lo Stato benevolente (di tutti) o malevolente (di alcuni contro altri), il mercato o il dono, la competizione o l’aiuto reciproco, la proprietà o i beni comuni, e che possa trarre spunto anche dal pensiero libertario e dal pensiero religioso, quindi conservando gli strumenti analitici dell’economia ma evitando la trappola del riduzionismo antropologico (Candela 2021).

Canaglie senza ideologia: l'anima ribelle degli chansonnier

È stato scritto che la canzone è radicalmente cambiata con l’avvento della sua dimensione d’autore che l’ha trasformata in qualcosa di unico e personale, che ne ha acceso lo spirito civile e libertario. In modo particolare nella prima stagione francese e in seguito anche in quella italiana, non a caso è quasi impossibile separare il repertorio, l’esperienza e il canto dal sentimento politico o sociale perché questo miscuglio di passioni vitali i francesi l’hanno adottato come una sorta di resistenza anarchica, segnata fra Giovanna D’Arco e la Paris Canaille. Infatti i primi riferimenti di questa schiera di cantautori vanno molto indietro nel tempo, ad Aristide Bruant, il padre degli chansonnier, perché già nelle sue canzoni si affacciavano maudits animati da uno spirito tragico, melanconico e barricadero. Ma poi anche tutta la schiera di «cantautori», Brel, Ferrè, Trenet, Vian, Brassens, Gainsbourg la stessa Piaf e i suoi fedeli Bécaud e Aznavour, ha ereditato quei sentimenti rileggendoli in modo personale e profondamente diverso uno dall’altro pur condividendo lo stesso spirito anticonformista. Operaio alla Renault di Parigi, Georges Brassens è stato anche uno dei più chiaramente ispirati da sogni libertari, arrivando a una narrazione ironica e tagliente dopo una forte passione per i testi fondamentali della letteratura francese che lo ha portato alla scrittura di brani ripresi da poeti celebri come Francois Villon (Ballade des dames du temps jadis), Victor Hugo (Gastibelza), Paul Fort (Le petit cheval). È nel 1946 che cominciò la sua collaborazione a «Le Libertaire», rivista anarchica che lo mantenne legato a questi ideali per tutta la vita e che Brassens esprimerà con un sentimento di protesta attraverso l’irriverenza delle canzoni, la volontà di lottare contro l’ipocrisia della società e le convenzioni sociali. Nei testi la sua posizione politica è stata molto decisa quando prendeva posizione in favore degli emarginati, degli ultimi e contro ogni tipo d’autorità costituita, in particolare contro le figure del giudice e del poliziotto intese come immagini simboliche della giustizia ingiusta, basta dare un’occhiata al testo di Le gorille (Il gorilla) ripreso in italiano dal suo ammiratore Fabrizio De Andrè. Poi venne la stagione nel cabaret nei locali di Montmartre, in particolare il Chez Patachou anche se all’inizio solo come autore e non come interprete. Il 1953 fu anche l’anno di pubblicazione del romanzo La tour des miracles, poi venne l’accusa di disfattismo e «revisionismo storico» per Les deux oncles, la canzone antimilitarista segnata da un tono anarco-individualista che ruotava intorno alla vicenda metaforica di due zii immaginari.

La cura come principio organizzatore della società: una lettura del "Manifesto della Cura" di The Care Collective

Di critiche al neoliberismo se ne sono prodotte tante, tantissime negli ultimi decenni, in alcuni casi accompagnate da proposte alternative che vanno dal timido riformismo alla rivoluzione radicale. Il Manifesto della cura è una di queste. La sua particolarità sta nel fatto di utilizzare come centro della riflessione critica e della proposta concreta il concetto di cura. Autore del Manifesto è il gruppo The Care Collective, un collettivo inglese composto da persone del mondo accademico e dell’attivismo sociale. Fin dalla sua nascita, anno 2017, il gruppo di studio si è occupato della «crisi della cura» e con la pandemia, durante la quale le questioni legate alla cura sono diventate centrali, ha condensato le sue riflessioni nel Manifesto.