Una prospettiva di genere per l'alimentazione
Gli stereotipi socio-culturali, in particolare quelli di genere, hanno sempre influenzato e continuano a influenzare il nostro stile di vita. In questo senso l’alimentazione, uno dei principali e più importanti capisaldi della prevenzione, non fa eccezione. Chi, pensando a una grigliata di carne, non immagina l’uomo intento ad armeggiare intorno al fuoco, mentre la donna prepara la torta per i bambini e intanto mangia lo yogurt che, coi suoi miliardi di bifidobatteri, migliora la flora batterica intestinale? Senza voler necessariamente generalizzare, è questo il messaggio che la pubblicità ci trasmette, perché è questo lo stereotipo che fonda il nostro stile alimentare, ed è questo ciò che il mercato impone. Ciò che non emerge è che esistono differenze biologiche e fisiologiche tra i sessi, basate sulle loro differenze ormonali, che condizionano l’appetito, la digestione, il metabolismo e governano la biologia dei corpi. Tali differenze richiedono approcci nutrizionali diversi, che non sono tuttavia sufficienti a definire una prospettiva di genere dell’alimentazione, se non tengono conto delle norme e dei ruoli sociali attribuiti ai due sessi principali e non muovono dal riconoscimento delle molteplici identità, oltre la rigida distinzione tra maschile e femminile. Solo considerando le differenze biologiche definite dal sesso e quelle socio-culturali definite dal genere è possibile arrivare a una prevenzione «su misura» per il mantenimento dello stato di salute delle persone. Il nostro organismo ci avverte solo del bisogno di mangiare, ma non ci dice di cosa nutrirci. Ed è qui che subentra la società, dove il potere simbolico del cibo gioca una parte importante nel processo di potenziamento dell’identità di genere. Ciò che mangiamo non ha di per sé caratteristiche attribuibili alla femminilità o alla mascolinità, ma può legarsi a questo attraverso un discorso di controllo della società e di definizione degli individui che la compongono. Il consumo del cibo è strettamente connesso con le rappresentazioni sociali del corpo. Pensiamo agli uomini che svolgono lavori che li sottopongono a un continuo sforzo fisico: questi sviluppano un’attitudine verso il cibo che li porta a consumare pasti abbondanti, cibi pesanti, ricchi di carne e a elaborare una loro immagine di maschilità forte e virile. Ma la carne non è divenuta simbolo di virilità in virtù delle sue caratteristiche o in quanto sia preferita dalle persone di sesso maschile. Ha invece cominciato ad assumere questi significati perché all’interno di una determinata sfera socio-culturale è stata associata a un’immagine di mascolinità e di potere che prevede forza e superiorità economica. I maschi non hanno bisogno di mangiare carne, ma, assumendo un «cibo da uomo», rafforzano il proprio ruolo di genere. Il modello di corpo femminile imposto dalla società prevede invece il controllo su di esso e su ciò che può deviarlo dalla normalità socialmente riconosciuta in quel dato momento storico. È proprio attorno al rapporto con il cibo che storicamente si sono costruite le diverse rappresentazioni di femminilità, nel secolare tentativo di disciplinare il corpo femminile attraverso il culto della bellezza che passa inevitabilmente dal giudizio dello sguardo maschile, introiettato dalle donne di ogni epoca come parametro di valutazione di se stesse. Da sempre la donna ha avuto un legame inscindibile con gli alimenti e il loro consumo: è la prima nutrice, dal grembo al seno, al primo cucchiaino di pappa e in molti contesti familiari continua a essere colei che si preoccupa del nutrimento della famiglia. La storia ci ha raccontato che il posto della donna era in cucina e molti di noi sono cresciuti vedendo le proprie madri che preparavano la cena per quando papà tornava a casa. O per Natale le bambine ricevevano piccoli set da cucina di plastica con cui giocare. È un ruolo con una storia di oppressione a cui le donne sono state confinate da una struttura sociale patriarcale, che non si è risparmiata di imporre loro anche una misura nel consumo di cibo, misura che loro stesse hanno interiorizzato, determinando via via la loro alimentazione per sottrazione rispetto a quella dei maschi. In molte società alle donne venivano – e vengono ancora – riservati cibi considerati di seconda scelta o carenti dal punto di vista nutritivo nonostante non ci siano evidenze scientifiche in termini di minori energie spese dalle donne. Questo tipo di approccio alimentare imposto al genere femminile, improntato alla rinuncia e al controllo, e il ruolo sociale che le ha relegate nell’ambito domestico affidando loro tutte le pratiche legate alla nutrizione, le ha rese tuttavia più consapevoli sul piano dell’alimentazione, portandole a nutrirsi meglio rispetto al genere maschile, a cui è sempre stato concesso un comportamento più disinvolto nei confronti del cibo, oltre a un accesso migliore, quando non proprio privilegiato, anche in situazioni di precarietà sociale. Tutti gli studi sono coerenti nell’affermare che le donne tendono a essere semi-vegetariane, a prestare più attenzione ai prodotti della terra – frutta, verdura, legumi – tipici della dieta mediterranea, , notoriamente ricca di antiossidanti e quindi preventiva verso le cosiddette malattie del benessere, quali il diabete, le patologie cardiovascolari e i tumori. Gli uomini mangiano, invece, più carne. Questa distinzione è di fondamentale importanza perché da queste scelte dipendono la qualità e la quantità dei nutrienti che entrano nel nostro corpo e il loro impatto in termini di prevenzione e sviluppo di molteplici patologie. Ci sono molti esempi di come i gusti di uomini e donne sembrano differenziarsi e di come ci siano cibi considerati a seconda del sesso biologico e degli attributi di genere a esso legati: il gusto e il concetto di immagine di femminilità e mascolinità in una determinata società sono correlati e le scelte alimentari compiute dagli individui sono dettate anche da come la società vuole che essi appaiano. Il corpo maschile e quello femminile, intesi come costrutto sociale, hanno dei requisiti diversi costruiti su un sistema binario: se il primo deve essere forte e potente, e quindi mangiare carne, al secondo verrà chiesto di essere delicato e curato e di prediligere alimenti dolci, delicati e cremosi, aggettivi che rispecchiano l’essere femminile per la società. Lo stereotipo che l’uomo debba mangiare carne fonda le sue radici sul preconcetto che un elevato apporto di proteine nobili animali sia indispensabile alla formazione e al funzionamento dell’apparato osteo-muscolare e quindi alla rappresentazione dell’immagine di un organismo, quello maschile, forte e virile. Il tutto è condito dall’idea che sia proprio il testosterone, ormone sessuale androgeno, a richiederne un adeguato consumo. Se è in parte vero che il testosterone stimola la crescita dei muscoli negli esseri umani, diversi studi recenti hanno dimostrato come tale crescita non corrisponde a un aumento proporzionale della forza muscolare rendendo inutile un eccessivo consumo di carne. L’associazione tra carne e virilità e la convinzione che le proteine animali siano un elemento fondamentale della forza fisica sono pregiudizi che affondano le radici nel costrutto sociale della mascolinità egemonica, duro da scardinare, e che va indubbiamente oltre le scelte alimentari. Ciò che serve è un cambiamento culturale a cui possono contribuire scelte alimentari alternative che svincolano la carne – e qualsiasi altro alimento – dall’egemonia di genere. Ciò che introduciamo nei nostri corpi e il significato che andiamo ad attribuirgli sono un atto politico anche in termini di sostenibilità ambientale. La produzione di cibo, conseguente alle scelte alimentari quotidiane, infatti, impatta considerevolmente sull’ambiente essendo responsabile del 30% delle emissioni globali: il solo settore della carne contribuisce al 14% dei gas serra prodotti nel mondo. L’alimentazione è un marcatore sociale e può rappresentare un mezzo per ostentare benessere e disponibilità economiche, oppure essere la cartina di tornasole della povertà che presenta anch’essa un gap di genere. Nel mondo più di un miliardo di ragazze adolescenti e donne soffrono di denutrizione, di carenza di micronutrienti essenziali e di anemia, con conseguenze devastanti per il loro benessere e per la loro vita. Un’alimentazione inadeguata durante la vita delle donne e delle ragazze può portare a un indebolimento delle difese immunitarie, a uno scarso sviluppo cognitivo e a un rischio di complicanze durante la gravidanza e il parto con conseguenze irreversibili per la sopravvivenza, per la crescita e per il futuro dei loro figli. Mangiare costantemente meno di quel che serve equivale infatti ad azionare un interruttore per accendere o spegnere l’espressione di geni o gruppi di geni delle cellule, una sorta di memoria che viene trasmessa alle generazioni future influenzandone la salute. In questo senso nei Paesi a basso e medio reddito i sistemi di protezione alimentare, sociale e sanitaria andrebbero declinati in base al genere, dando la priorità all’accesso delle ragazze e delle donne a diete nutrienti, sicure, a prezzi accessibili, e accelerando l’eliminazione di norme sociali che discriminano il genere femminile, come i matrimoni precoci, l’iniqua condivisione del cibo, delle risorse, dell’accesso al credito, del reddito e del lavoro domestico. La difficoltà ad accedere a un cibo sufficiente e adeguato è un problema strutturale anche nel nostro Paese. Aumento della disoccupazione, riduzione dei salari, precarizzazione del lavoro e parallelo taglio della spesa sociale hanno portato all’intensificarsi dell’insicurezza alimentare nelle famiglie. La spesa alimentare è infatti più flessibile di altre spese essenziali e quindi più facile da ridurre, tagliando sulla quantità e/o qualità del cibo acquistato. La povertà alimentare, riflettendo le dinamiche di genere che caratterizzano l’economia domestica, si presenta con un volto di donna: sono le donne che sentono il dovere di rinunciare a determinati prodotti e di saltare i pasti per risparmiare e permettere ai figli e al resto della famiglia di mangiare. Sono soprattutto le donne che affrontano la vergogna e lo stigma sociale di rivolgersi ai centri di assistenza per chiedere aiuto. Il cibo è un diritto e non un bisogno e come tale andrebbe garantito ovunque attraverso misure di giustizia sociale che assicurino a ogni persona – a prescindere dal genere di appartenenza – le risorse necessarie ad avere una dieta sana e appropriata non solo sul piano nutritivo, ma anche sociale e culturale.