Un muro è solo un muro, può essere distrutto
Serikat Tahanan è un’associazione antiautoritaria di detenuti organizzata all’interno e all’esterno di undici carceri in Indonesia. Lavorano per raggiungere gli attivisti antiautoritari condannati e per difendere e informare il pubblico sulle condizioni di detenzione in Indonesia. «Organizzandoci in Serikat Tahanan, ci ricordiamo costantemente perché abbiamo iniziato la nostra lotta. Il nostro programma a lungo termine è l’abolizione della prigione». I compagni hanno deciso di raccogliere i loro scritti in una pubblicazione e hanno lanciato una campagna di finanziamento per coprire le spese. In segno di solidarietà e supporto, condividiamo un pezzo della prossima pubblicazione.
Fino a quando tutti saranno liberi.
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Sappiamo che nel corso della storia, in diverse carceri del mondo, si sono verificate rivolte e sommosse. Ma sono stati eventi molto rari. I prigionieri dovevano vivere per anni nella stessa tetra stanza ed erano considerati soggetti passivi. Come possiamo definire una resistenza in cui possiamo contare quasi solo su noi stessi, in uno spazio praticamente isolato e pieno di pressioni, che non offre quasi nessuna possibilità di organizzarsi, come una prigione? I muri sono solo muri e gli esseri umani sono solo esseri umani. Anche le carceri e le loro guardie hanno dei punti deboli e i detenuti fanno del loro meglio per sfruttarli ogni volta che se ne presenta l’occasione. In Indonesia, il contrabbando e la corruzione dei guardiani sono fatti comuni. La presenza di oggetti proibiti nelle carceri indonesiane è stata ben documentata da molti mass media. Si va dalle droghe, ai telefoni cellulari, alle armi da taglio e persino alle armi da fuoco! Ho anche sentito parlare di detenuti che pagano per accogliere donne in prigione o fuori dal carcere per un po’.
Ma tutti gli esempi sopra citati costituiscono privilegi (di solito i prigionieri per corruzione sono politici e funzionari governativi) che la maggior parte degli altri detenuti non ha. Per superare le varie limitazioni e l’impotenza, spesso si verificano anche violazioni delle regole e sabotaggi. Non riuscendo a controllare la diffusione dei cellulari, sono stati installati dei disturbatori di segnale, che i prigionieri hanno continuato a distruggere di nascosto. Ciò include anche la distruzione di telecamere a circuito chiuso, il furto di utensili da cucina, di attrezzature da ufficio, il furto di cibo dalla cucina per poi rivenderlo e la manipolazione delle ispezioni giornaliere.
In questo caso vale il luogo comune che «le regole sono fatte solo per essere infrante». L’articolo 4 del Permenkumham (Ministero della Giustizia, N.d.T) 6/2013 prevede 22 divieti per ogni detenuto o internato. Fra questi ad esempio: avere rapporti finanziari con altri detenuti o con il personale di custodia; commettere atti immorali e omosessuali; tentare la fuga; detenere illegalmente denaro; dotare le stanze di apparecchiature elettroniche; installare impianti elettrici; avere mezzi di comunicazione; conservare armi e strumenti che possono provocare incendi; etc. In tutta la mia esperienza, tutti i 22 divieti (a eccezione della diffusione di insegnamenti eretici) sono stati violati. La sfida persiste e spesso i guardiani mantengono il compromesso in base ai propri interessi.
La resistenza si manifesta anche in forma non conflittuale o molto passiva. Ad esempio, fingendo di non sentire le chiamate o gli ordini, o fingendo di non vedere la presenza degli agenti. La vita in carcere è, a tratti, come un nascondino tra gatto e topo. Ci sono quelli che giocano d’azzardo, si tatuano, si drogano, usano il cellulare: tutti questi hanno bisogno di protezione, quindi ci sono sempre detenuti-spie pronti a dare l’allarme se una guardia si avvicina. Nella cella della polizia dove siamo stati rinchiusi molto tempo, abbiamo usato uno specchio per vedere attraverso le sbarre. Facevamo i turni per controllare con gli specchi e i prigionieri di turno li chiamavamo «spie».
Durante le ispezioni periodiche, abbiamo più volte intonato filastrocche (in Indonesia le chiamiamo pantun) come modo creativo e divertente per criticare, trasmettere aspirazioni e lamentele, o semplicemente come dichiarazione di solidarietà tra detenuti.Una delle poesie che ho scritto criticava l’estorsione. Una volta, ilcibo fornito da una famiglia non è stato consegnato al detenutoin questione. Il cibo (qualcosa di valore!) sarebbe stato consegnato solo se avesse pagato la polizia. Perciò, davanti a loro inassemblea, ho letto una breve filastrocca:
Tulang iga tulang rusuk / Kiriman kita dilarang masuk
[Costine / Alla nostra spedizione è vietato l’ingresso].
Oppure, c’è stata anche una filastrocca per onorare gli assistenti dei prigionieri (definiti rincalzi):
Makan emping di empang / Tanpa tamping kami timpang
[Mangiando in uno stagno / senza rincalzi saremmo zoppi].
A volte, la filastrocca che racconto viene dal profondo del cuore:
Batuk-batuk, makan gorengan / Aku berdoa untuk, dia yang kurindukan
[Tossendo e mangiando cibo fritto / prego per chi mi manca].
I prigionieri (e i poliziotti) amano ascoltarmi. Spesso mi chiedono se ho preparato delle filastrocche. A volte la polizia risponde alle nostre filastrocche, non sono l’unico che compone versi.
Dalla custodia della polizia sono stato trasferito in un centro di detenzione. Lì abbiamo dovuto trascorrere 12 giorni in quarantena in celle molto sporche, piene di rifiuti, con i bagni intasati, piene di vermi, millepiedi, scarafaggi e altri insetti, senza luce e acqua. Una notte è piovuto. Mi sono svegliato e mi sono reso conto che la nostra cella era diventata una piscina. Avevo il corpo immerso nell’acqua. Per poter passare a una cella più grande e più pulita, dobbiamo pagare circa 500mila Rupie indonesiane (circa 30 euro, N.d.T.). Se l’ultimo giorno non pagheremo, verremo trasferiti nella cella di isolamento, che serve come punizione. Questo è un ricatto!
Pertanto, ho invitato decine di detenuti di altre cinque celle di quarantena ad aderire allo sciopero dei pagamenti. Ho scritto una lettera da far leggere a un detenuto anziano. Diceva:
«Leggete questa lettera in ogni cella passatela fino alla cella di quarantena numero 6. Assicuratevi che tutti i detenuti conoscano il contenuto di questa lettera. Proponiamo di scioperare tutti e di non pagare la tassa di trasferimento. Non si tratta di un nostro obbligo, ma di tasse illegali richieste dai dipendenti. Ci è giunta notizia che il denaro per il trasferimento sarà di 500.000 Rupie. Se non paghiamo, saremo trasferiti nella cella di isolamento. C’è un amico vicino a noi, che da un mese è in isolamento perché non può permettersi di pagare le rette. Se scioperassimo tutti, i guardiani si confonderebbero, sia che venissimo cacciati immediatamente senza pagare, sia che venissimo spostati in una cella di isolamento. È possibile che saremo trattenuti tutti in celle di quarantena. Dobbiamo sopportare altri tre giorni qui, fino a quando non verranno trasferiti altri prigionieri. Il trasferimento di prigionieri avviene ogni due settimane. Questo renderà il direttore confuso nel decidere se metterci tutti in una cella comune o metterci insieme ai nuovi prigionieri. Se resteremo uniti verremo tutti espulsi senza dover pagare. Ricordate, le nostre famiglie fuori di qui stanno lavorando duramente per recuperare soldi. Poi, dovremo anche pagare un acconto, il capo della cella, per non parlare delle sue spese di vita. Se non dovessimo essere cacciati senza pagare, chiediamo almeno che la tassa di trasferimento venga ridotta. Ricordatevi, le formiche non mordono altre formiche. Le formiche mordono solo chiunque le calpesti. Le formiche mordono in maniera spensierata. Arrivati alla cella 6, per favore bruciate questa lettera. Fate in modo che nessun prigioniero venga accusato di essere un provocatore. Per coloro che sono d’accordo, ne discutiamo stasera».
Il detenuto più anziano era d’accordo, anche se diceva che avrebbe preferito stare qui piuttosto che essere trasferito nella cella più grande. Non so per quale motivo. Ma non ha letto la lettera e mi ha detto di tenerla. Però egli stesso incitava a gran voce i prigionieri delle altre celle a scioperare. Molti erano d’accordo, ma al dodicesimo giorno, siamo venuti a sapere che molti prigionieri avevano già pagato perché non riuscivano a sopportare la sofferenza di stare in quarantena. A mia insaputa, il mio avvocato aveva pagato i guardiani per farmi uscire dalla cella di quarantena. Mi sono vergognato molto.Immaginate, ero il promotore dello sciopero e invece sono stato fatto uscire. È stato chiamato il mio nome e io ho solo potuto guardare mentre gli altri sfortunati prigionieri, compreso il detenuto più anziano che non poteva permettersi di pagare, dovevano rimanere in quella dannata cella ancora per un po’. Più tardi ho capito perché preferisse stare in quarantena: le celle residenziali non sono meno terribili e non c’è meno corruzione. Nonostante le celle di quarantena siano terribili, almeno lì non si deve pagare!
Quando sono stato trasferito di prigione, ho aperto una bancarella di cibo. Nella cella vendo caffè, sigarette, pane, noodles istantanei e molti altri prodotti di prima necessità. Un giorno, tutti i detenuti che vendevano furono portati dal direttore. Ha chiesto la chiusura di tutte le bancarelle, tranne per coloro che erano disposti a pagare un deposito di 5 milioni di Rupie (circa 300 €, N.d.T.) alla «cooperativa carceraria». Comunque ai detenuti viene chiesto di pagare una quota iniziale di ingresso di 500mila Rupie (circa 30 €, N.d.T.), e poi una quota mensile di 250mila Rupie (circa 15 €, N.d.T.).
In passato, prima che esistessero le cooperative, i detenuti potevano ricevere grandi quantità di beni di prima necessità (ad esempio noodle istantanei). Di conseguenza, si dice che la mia prigione fosse come un mercato in fermento, perché molti detenuti rivendevano i beni inviati dalla loro famiglia. Attualmente il numero di beni di famiglia è limitato, quindi il detenuto è costretto ad acquistare dalla cooperativa a un prezzo più alto. Un giorno le guardie hanno sorpreso un detenuto a vendere piatti riconfezionati inviati dalla famiglia. I guardiani sono anch’essi coinvolti nel business della vendita di cibo perché cercano di mantenere il monopolio della cooperativa.
Ho resistito a questa estorsione e ho continuato a vendere di nascosto. Ho camuffato la bancarella sparpagliando gli oggetti in diversi armadietti. Se durante una retata vengono trovati questi oggetti, i proprietari dell’armadietto devono semplicemente dichiarare che sono propri. Si tratta di una strategia di mercato nero per contrastare il monopolio delle cooperative e dei guardiani. Poche settimane dopo che siamo stati richiamati, i guardiani hanno diligentemente fatto una retata nelle celle e confiscato diversi articoli dei negozi, fra cui il pane. In quell’occasione giurai di fronte agli altri detenuti che avrei reagito se i beni del mio negozio fossero stati confiscati (per fortuna non è successo). Se questo vi sembra banale, devo ricordarvi che i noodles istantanei possono essere un bene di lusso in prigione. Soprattutto se ciò che riceviamo di solito è riso mezzo cotto, sabbioso e roccioso, pesce con una pungente puzza di marcio e verdure accompagnate da vermi. Fidatevi, ho mangiato tutto ciò in passato, non sto esagerando. C’è una lezione che ho imparato da quell’esperienza o, meglio, una riflessione sulle nostre condizioni odierne. Se i noodles istantanei commercializzati da un detenuto confiscati provocano indignazione, non riesco a immaginare cosa accadrebbe se diventassi un agricoltore e la mia terra venisse confiscata. In realtà questo è quello che succede oggi in tutti gli angoli dell’Indonesia. Sono stato in cella anche con un agricoltore che era stato arrestato in un conflitto contro una multinazionale delle piantagioni. Si è commosso molto quando gli ho fatto leggere le memorie della prigione Nirbaya scritte dal giornalista indonesiano Mochtar Lubis, perché quando le ha lette, ha provato gli stessi sentimenti dell’autore che era stato imprigionato dal regime autoritario del Nuovo Ordine indonesiano.
La nostra immaginazione della resistenza porta invariabilmente a forme spettacolari e drammatiche di confronto popolare, spesso su scala massiccia, sia spontaneo che organizzato. Suggerisco di vedere anche la resistenza dal profondo del nostro essere. In un luogo in cui vengono imposti isolamento e restrizioni alle comunicazioni, rimanere in contatto con il mondo esterno è una lotta. Di fronte alle istituzioni della disciplina, dell’obbedienza creatrici di questi effetti deterrenti, ilsolo fatto di essere sè stessi è resistenza. In una situazione cupa che vi trascina nel baratro, mantenere la vitalità ed essere un esempio è resistenza. Alla fine, mi sono reso conto che se la prigione stava fondamentalmente cercando di negare la mia esistenza, anche affermare che io esistevo era semplice resistenza. Se tutto è proibito, allora tutto è resistenza.
So che quello che vi sto dicendo suona eroico. Di sicuro. Ma non mi interessa e non voglio farla sembrare più di quello che è. Voglio condividere la mia storia e spero che questo ispiri più persone a rendersi conto della propria capacità di resistenza nel contesto delle proprie lotte. Non scambiatemi per un ribelle fiero e orgoglioso. In effetti non sono coraggioso. Sarebbe più corretto definirmi sconsiderato. Sconsiderato significa sapere di essere debole, spaventato e perdente, ma decidere di continuare ad andare avanti. Ho trovato il coraggio con difficoltà. A parte ciò, tendo anche a essere introverso, calmo e limito le mie relazioni con gli altri detenuti. Il più delle volte sono stato obbediente e avevo un largo sorriso verso i guardiani. Non ho mai messo su una faccia di sfida.
Se mai dovrò agire, deve essere una situazione importante e urgente. Per qualcosa per cui vale la pena lottare, sono pronto a ribellarmi ai guardiani. Non preoccupatevi, ho messo dei limiti. Non andrò troppo in là prendendo rischi inutili. Ho già fatto ripetutamente errori madornali, quindi sto più attento. Tengo sempre a mente il messaggio di Alexander Brener:
«Prometto di essere sobrio e astuto, agile e pericoloso. Prometto di agire in modo tale che non possiate né annegarmi né circondarmi di silenzio. Prometto di combattervi con intelligenza e vigilanza, con attenzione e calma, in modo da colpirvi con delicatezza e forza, ovunque io possa, finché avrò abbastanza forza, anche se in tutto ciò non c’è futuro».
Scritto con tutto il mio cuore.
1 agosto 2023
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Jungkir Maruta è uno scrittore e ricercatore indipendente anarchico. Interessato agli studi di antropologia sulle società senza stato e alla storia del movimento anticolonialista indonesiano. Vuole ancora scrivere nonostante sia stato condannato a 15 anni di prigione per possesso di marijuana.
Traduzione di Marco Antonioli
Estratto il 25-08-2023 da
organisemagazine.org.uk/2023/08/25/a-wall-is-just-a-wall-it-can-be-destroyed-international
La Biblioteca Anarchica
Jungkir Maruta
theanarchistlibrary.org