Tragedia e farsa delle COP
La Conference of Parties (COP) è la riunione annuale dei Paesi che hanno ratificato la «Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici» (United Nations Framework Convention on Climate Change, UNFCCC). Fu firmata durante la Conferenza sull’Ambiente e sullo Sviluppo delle Nazioni Unite, informalmente conosciuta come Summit della Terra, tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992. Punto fermo del trattato era la riduzione di emissioni di gas serra.
Più di trenta anni dopo, già solo nella scelta del luogo in cui si è svolta la COP28, Dubai, negli Emirati Arabi Uniti (EAU), sembra che il mondo abbia preferito il profumo dei petrodollari sauditi, rispetto alla coerenza con i propri obiettivi. Non soddisfatti dei dollari arabi la COP29 – 11/22 novembre 2024 – va ora a caccia di consensi a Baku, capitale dell’Azerbaijan, altra culla della produzione di idrocarburi.
La decisione di svolgere a Baku la COP29 ha poco a che fare con le politiche climatiche e molto di più con le relazioni internazionali. È una decisione politica dalle profonde implicazioni. L’Azerbaijan è la longa manus della Turchia di Erdogan sul Caucaso e sull’Europa orientale come ha dimostrato il continuo appoggio dei turchi agli azeri nel corso dei conflitti contro l’Armenia per il controllo del Nagorno-Karabakh. Ultima tappa di questa guerra – spesso taciuta dei media occidentali – è stata a settembre 2023, quando l’Azerbaijan ha ripreso il controllo completo della regione costringendo la popolazione armena ad abbandonare le proprie case, provocando un esodo di oltre 140.000 persone. Lo stesso Parlamento europeo ha definito l’intervento armato azero come «pulizia etnica».
Non va dimenticato però che l’Azerbaijan è il detentore di circa il 20% delle riserve mondiali di gas ed è uno dei principali punti di partenza dei gasdotti che arrivano in Europa e che stanno assumendo ancora più rilevanza strategica da quando la guerra in Ucraina ha costretto a diversificare le importazioni di combustibili fossili. In questa situazione l’Italia è direttamente coinvolta in quanto è il principale partner commerciale di Baku tra gli stati europei e uno dei primi al mondo, con un volume di importazioni pari al 30,1% dell’export totale azero. L’Eni ha un ruolo di primo piano in diversi accordi con l’azienda statale di idrocarburi azera, la Socar, e il Tap (Trans Adriatic Pipeline) ha come azionista di maggioranza l’italiana Snam.
La domanda che sorge spontanea è: con quale spirito l’Unione Europea e l’Italia affronteranno la COP29 in Azerbaijan? Saranno disposte ad andare contro gli interessi del Paese ospitante nonché proprio partner strategico? L’UE – come ha già dimostrato – rischia di trattare erroneamente energia, clima e politica internazionale come materie tra sé scollegate, tralasciando la tutela di altri valori imprescindibili per una transizione «giusta, ordinata ed equa» dalle fonti fossili.
Per poter leggere a 360 gradi la scelta di svolgere la COP29 in Azerbaijan è bene fare un rapidissimo excursus su qual è la situazione a livello di diritti umani nel Paese. Secondo Freedom House essa è ancora peggiore di quella degli Emirati Arabi Uniti. Il potere è nelle mani di Ilham Aliyev e della sua famiglia allargata dal 2003; ciò rende di fatto l’Azerbaijan uno stato autoritario. Sono negati i minimi diritti civili e sociali fra cui la libertà di opinione e la libertà di riunirsi in assemblea. Nel corso dell’ultimo anno sono stati arrestati numerosi attivisti di ONG e giornalisti con la sola colpa di aver criticato il presidente e aver dato spazio alle parole dell’opposizione. Inoltre durante il conflitto in Nagorno-Karabakh l’Azerbaijan si è reso colpevole di crimini di guerra accertati da fonti indipendenti internazionali.
Torniamo alla COP28 del 2023 che si è svolta a Dubai, una delle città più energivore del pianeta e l’ottavo Paese produttore di petrolio al mondo, perché lì era già delineato l’approccio delle élite mondiali sul tema che Baku 2024 non fa altro che rafforzare. Secondo i dati della Banca Mondiale, gli EAU hanno uno dei cinque livelli più alti al mondo di emissioni di anidride carbonica pro capite e sono ritenuti da varie fonti indipendenti fra cui Freedom House e Amnesty International un Paese in cui non vengono garantiti i diritti umani e le più basilari libertà civili.
Da quando è diventato presidente Mohamed bin Zayed sono state approvate nuove leggi che limitano significativamente la libertà di espressione e di riunione. Le autorità hanno prolungato la detenzione arbitraria di decine di vittime di processi di massa oltre la fine del loro periodo di detenzione e hanno sottoposto un difensore dei diritti umani e un dissidente a maltrattamenti prolungati. Inoltre il governo ha rinnovato la sua posizione contraria al riconoscimento dei diritti dei rifugiati.
Svolgere una conferenza di questa importanza per il futuro del pianeta in Paesi di tale caratura, prima gli EAU, poi l’Azerbaijan, significa da un lato non curarsi particolarmente dei risultati della conferenza e dall’altro, ancor più grave, accettare ed essere complici di queste politiche autoritarie, liberticide ed ecocide.
Questa è la tragedia. Tragedia ecologica, umana e sociale sulla pelle di tutti noi.
La farsa sono i risultati della COP28 che devono essere letti tenendo a mente il luogo in cui sono stati ratificati e lo svolgimento della conferenza. Presidente della COP28 è stato Sultan Ahmed Al Jaber, ministro dell’industria e delle tecnologie avanzate degli EAU, già presidente della Abu Dhabi National Oil Company dove ha avviato investimenti nelle tecnologie di cattura del carbonio e nell’idrogeno come politica di greenwashing per giustificare l’incremento nella produzione di petrolio.
Inoltre durante la COP28 è passato alle cronache per aver dichiarato «non mi accoderò in ogni caso ad alcun discorso allarmista. Nessuno studio scientifico, nessuno scenario afferma che l’uscita dalle energie fossili ci permetterà di raggiungere l’obiettivo degli 1,5 gradi». Tutto falso. Non è allarmismo, ma realismo.
I risultati della COP28, anche alla luce di quanto illustrato sopra, sono stati la classica montagna che ha partorito un topolino. Ciò che salta maggiormente all’occhio e sucui gli analisti si sono concentrati è la scelta delle parole sulla fine dei combustibili fossili. Se gli impegni precedenti parlavano di phase out, quindi di fine globale della produzione di combustibili fossili, nei risultati della COP28 si parla di phase down, cioè di riduzione graduale. Phase down senza una definizione delle tempistiche in cui realizzarlo, vuol dire in sostanza ritenere accettabile l’utilizzo – gradualmente sempre inferiore – di combustibili fossili a data da destinarsi. Cioè probabilmente mai, visti gli attori in gioco. Guarda caso si è giunti all’accordo sul phase down grazie all’appoggio di Russia, Cina e Arabia Saudita che non sarebbero state disponibili a un phase out.
Le prospettive future sono tutt’altro che rosee. È ormai certo che non saremo in grado di rispettare la soglia dei +1,5°C di aumento della temperatura fissata dagli accordi di Parigi. Per la prima volta abbiamo superato questo limite a inizio giugno 2023. Dicembre dello stesso anno non ha fatto che confermare la tendenza. Non c’è più neve per sciare e, invece cheriflettere sul sistema socio-economico che ci ha portato in questa situazione e decelerare la crescita imposta dal capitalismo, si continuano a implementare soluzioni che devastano il pianeta come sparare neve artificiale mista a composti chimici pur di tenere aperti gli impianti sciistici. Possibile fino a quando farà talmente caldo che anche la neve artificiale non attaccherà più. Mentre sembra non esserci fine al peggio della farsa politica, riecheggiano forti le parole di Cedric Schuster – Ministro dell’Ambiente di Samoa – pronunciate al termine della COP28: «Se continuate a dare priorità al profitto rispetto alle persone, state mettendo in gioco il vostro stesso futuro». Nel frattempo la terra continuerà a bruciare in estate e ad allagarsi in inverno, il livello dei mari si alzerà e le popolazioni che vivono sulle coste saranno costrette a migrare.