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Medicina di genere: medicina della differenza

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La concezione androcentrica della medicina tradizionale ha storicamente considerato la donna una variabile del genere maschile, un «piccolo uomo» da studiare nella sua specificità limitatamente all’apparato riproduttivo. Galeno, medico romano del II secolo d.C. riteneva che gli organi genitali femminili fossero una forma imperfetta, non sviluppata di quelli maschili: il corpo della donna era un corpo sbagliato, venuto male, non degno di studi particolari. Andrea Vesalio, fondatore dell’anatomia moderna, pur essendo tra i primi assertori del superamento dell’antica medicina galenica, continuava ad affermare che «l’organismo maschile e quello femminile non differiscono in alcuna maniera se non nell’apparato riproduttivo». Fino alla fine del 1600 non esisteva nemmeno un termine che definiva la vagina, considerata un «pene introflesso», secondo la descrizione che ne faceva Erofilo, medico del III secolo d.C.
Nella storia della medicina le donne sono sempre state assenti o, se presenti, relegate a ruoli marginali e non facilmente ricostruibili. Sono state mediche senza laurea, infermiere senza qualifiche, assistenti naturali e spontanee. Non avevano un ruolo ufficiale, né una formazione accreditata. È una questione di potere. L’esercizio della medicina infatti attribuisce al medico il potere di curare, esercitato per il bene del malato. Lo dice bene Rodrigo De Castro, medico del diciassettesimo secolo, nel suo trattato Medicus politicus quando afferma che come il sovrano governa lo Stato e Dio governa il mondo, il medico governa il corpo umano. Potere, governo e controllo biopolitico sono tre pilastri del patriarcato: non è difficile immaginare quindi perché la scienza medica sia stata un affare solo del genere maschile e abbia confinato le donne alle pratiche della cura, espressione di conoscenze tramandate che richiedevano un approccio empirico e non scientifico. Le donne presenti in campo medico andavano oscurate perché, occupando uno spazio professionale di potere che gli uomini avocavano a sé, erano scomode. Non dimentichiamo che molte delle streghe perseguitate in Europa a partire dal XV secolo erano levatrici, in linea con una lunga tradizione di pratica medica più empirica che teorica: la caccia alle streghe era quindi anche un tentativo del medico uomo di riappropriarsi del settore dell’ostetricia, spazio prettamente femminile.
L’applicazione della medicina di genere è recentissima. Nel 1991 la cardiologa americana Bernardine Healy, direttrice del National Institute of Health americano pubblicò sull’importante rivista scientifica «New England Journal of Medicine » un articolo in cui metteva in evidenza le differenze nella cura di uomini e donne con le stesse malattie cardiovascolari. L’errata convinzione che fossero patologie tipicamente maschili portava infatti a ritardi nelle diagnosi e nella cura delle donne, spesso sottoposte a terapie inappropriate. Da quel momento a livello mondiale è cominciato un graduale e lento riconoscimento del genere come uno dei determinanti di salute. In Italia l’approvazione della Legge 3 del 2018 ha definitivamente inserito il concetto di genere nel Servizio Sanitario Nazionale. Sesso e genere non sono sinonimi. Con il termine sesso ci si riferisce alle caratteristiche fisiche e biologiche dell’individuo che includono le concentrazioni ormonali, gli apparati riproduttivi, le espressioni dei geni e i loro effetti e le diverse conformazioni fisiche, ad esempio la più alta percentuale di grasso corporeo nelle donne. Il genere invece è associato al comportamento, allo stile di vita e all’esperienza. È un costrutto sociale, cioè qualcosa che è prodotto dalla società e non inerente al nostro corpo. La società è culturalmente fondata sul binarismo di genere, ovvero sulla rigida distinzione tra maschile e femminile, da cui vengono fatte derivare aspettative altrettanto rigide sui comportamenti, gli atteggiamenti, l’aspetto e i ruoli. Una persona che ha un’identità di genere in linea con il sesso biologico è definita cisgender. Transgender è invece chi presenta un’identità di genere diversa dal sesso biologico. Alcune persone transgender decidono di intervenire sulla loro incongruenza di genere, ovvero sul loro corpo, per renderlo più simile a come si sentono, attraverso trattamenti ormonali e/o chirurgici.
La medicina genere-specifica nasce dalla constatazione che le differenze tra uomini e donne in termini di salute sono legate non solo ai caratteri biologici e alla funzione riproduttiva, ma anche a fattori ambientali, sociali, culturali e relazionali. È una dimensione trasversale del sapere medico che adotta criteri di valutazione scientifica a partire dall’influenza del sesso e del genere sulla fisiopatologia umana e sulla sintomatologia clinica. Le malattie non si manifestano allo stesso modo nelle femmine e nei maschi. Torniamo alle patologie cardiovascolari che hanno fornito lo spunto per iniziare a parlare di medicina di genere. In Italia per le malattie del sistema cardiocircolatorio muoiono più le donne che gli uomini. Tranne nel periodo della vita in cui la donna è fertile, che vede gli uomini di pari età essere più colpiti, dopo la menopausa, al venir meno della protezione data dagli estrogeni, la frequenza di queste patologie nelle donne va progressivamente aumentando fino a superare l’uomo dopo i 75 anni. Allo stesso modo esistono malattie ritenute tipicamente femminili, come l’osteoporosi, che spesso negli uomini non sono considerate pur rappresentando anche per essi minacce alla salute soprattutto in età avanzata. Anche la depressione sembra essere meno frequente negli uomini rispetto alle donne. Ma i dati non tengono conto del fatto che il maschio ricorre con più difficoltà all’assistenza sanitaria in questo settore e che l’accertamento della malattia psichiatrica negli uomini è più complessa perché realizzata su linee guida che si basano solo sui disturbi manifestati dal genere femminile. La recente pandemia da SARS-CoV-2 ci ha fornito elementi per comprendere quanto le differenze biologiche legate al sesso e quelle socio-culturali legate al genere abbiano ricadute sulla salute delle persone. L’infezione da Covid-19 ha infatti manifestato un’ampia suscettibilità alla dimensione del genere, che ha riguardato tra l’altro la prevalenza e la severità della malattia e la mortalità. I dati disaggregati per sesso di cui si dispone hanno indicato infatti che, rispetto agli uomini, le donne hanno presentato meno complicanze e mortalità. Ciò è dovuto al fatto che le cellule del sistema immunitario delle donne hanno la capacità, grazie agli estrogeni, di attivare risposte più pronte, efficaci e durature rispetto a quelle degli uomini, rendendole più resistenti alle infezioni. Il risvolto negativo è che questo le rende più suscettibili all’insorgenza di patologie mediate dal sistema immunitario, le cosiddette malattie autoimmuni. Ma le donne, anche se meno colpite in termini di morbilità, sono coloro che hanno subito maggiormente l’impatto sociale, economico e di violenza della pandemia con un rischio circa doppio di sviluppare o di aggravare sindromi patologiche a lungo termine. Anche la ricerca sui farmaci e sui dispositivi medici risente della concezione androcentrica della medicina. Questi ultimi ad esempio sono studiati prevalentemente sull’uomo: lo sono le mascherine che abbiamo portato durante la pandemia, che hanno un impatto maggiore sulla cute delle donne, e che sono state da loro indossate molto più che dagli uomini (pensiamo soltanto al personale impiegato nelle strutture sanitarie); lo erano i primi modelli di cuore artificiale usati per le persone in attesa di trapianto, troppo grandi per il torace della maggior parte delle donne; lo sono i pacemaker necessari per «sincronizzare» il cuore e risolvere lo scompenso cardiaco, più utilizzati negli uomini che nelle donne, pur traendone queste ultime maggior beneficio.
Ormoni e genetica giocano un ruolo importante anche nel meccanismo di azione dei medicinali. Solo dopo il 1993, su richiesta della Food and Drug Administration, gli studi clinici sui farmaci hanno cominciato a includere le donne. Il problema però non è solo quello di dare rappresentanza al genere femminile, ma di definire specifiche analisi di genere, gestendo separatamente i parametri di efficacia e sicurezza sui due sessi: quando si tratta di analizzare i dati il sesso viene spesso trascurato. Non serve mettere in commercio i farmaci con le confezioni rosa per le femmine e azzurre per i maschi se contengono lo stesso principio attivo nelle medesime quantità: occorre definire dosaggi diversi per i due sessi in modo da garantirne la massima efficacia e la minor tossicità.
Sebbene sesso e genere siano due concetti diversi, sono molto legati tra di loro e spesso è difficile separarne l’interazione. In alcuni casi il sesso influenza la salute modificando il comportamento, che è più associato al genere. Questo accade, ad esempio, quando il testosterone influisce sulla probabilità di sviluppare comportamenti «maschili» aggressivi portati alla prevaricazione e al dominio. Viceversa, comportamenti ripetuti, come cattive abitudini, scelte alimentari sbagliate, esposizione a stress o inquinamento possono portare a modificazioni epigenetiche, ovvero a quelle modificazioni ereditabili che portano a variazioni dell’espressione dei geni senza però alterare la sequenza del DNA. Sui comportamenti sappiamo che incidono pesantemente le diseguaglianze e gli stereotipi di genere su cui è normata la società: a livello globale sono le donne a essere maggiormente svantaggiate nell’accesso alle cure, a causa delle disuguaglianze di genere e delle discriminazioni sociali verso il genere femminile, con effetti pesanti sulla loro salute.
Non bisogna cadere nell’errore di considerare la medicina di genere come la medicina delle donne. Potremmo invece definirla come la medicina della differenza, un approccio diverso e innovativo alle disuguaglianze di salute, a partire dall’insorgenza e dall’evoluzione delle malattie, dovute all’appropriatezza della diagnosi e della cura, ma anche alle disuguaglianze sociali, culturali, etniche, psicologiche, economiche e politiche che determinano il vissuto delle persone.