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Liberare spazi educativi. Dai libri di Dambrosio a ulteriori luoghi di dibattito

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L’interrelazione fra i progetti educativi e gli spazi idonei a ospitarli è inscindibile; pur non essendo un tema nuovo, rimane fondamentale: ogni esperienza pedagogica del passato, che risulta di riferimento a chi cerca di attuare oggi approcci rispettosi dell’evoluzione delle giovani generazioni, si è dovuta confrontare sul come e il perché in rapporto al dove. Ciò è vero soprattutto in luoghi urbanizzati sconvolti dai cambiamenti sociali dovuti anche all’uso imperante del digitale. A riguardo possiamo trovare molti spunti di riflessione nel libro di Giuseppe Dambrosio, Spazio delle mie brame – Riflessioni sul potere, lo spazio e l’educazione diffusa, Mimesis, Milano 2023, testo che va a completare il precedente dell’autore, Potere, soggettività, postmodernità, Sensibili alle foglie, Roma 2021. In entrambe le pubblicazioni l’autore si riallaccia alle analisi di Michel Foucault riguardanti i dispositivi di controllo all’interno delle istituzioni totali e la loro trasposizione in ogni ambiente strutturato della società fino alla limitazione delle libertà di scelta, individuali e collettive, pianificate da un addestramento all’autodisciplina e all’obbedienza efficace a tal punto da venir, paradossalmente, percepito come accattivante fattore di realizzazione personale e integrazione sociale.Dambrosio nel suo primo libro cita Foucault, soprattutto da Les anormaux, per poi riflettere sulle possibilità di resistenza attuabili in una postmodernità caratterizzata da un’organizzazione sociale sempre più efficace nell’incanalare le energie individuali verso modalità di comportamento finalizzate a un modello unico di produttività, di progettualità nonché di svago. Se i nuovi poteri sono tanto subdoli proprio perché non hanno l’assoluta necessità di ricorrere a divieti, ma reprimono preventivamente attraverso forme di controllo difficili da individuare in quanto introiettate come norma, la nostra lente dovrà saper scardinare queste trappole per focalizzare ambiti di renitenza costruttiva. Le argomentazioni dell’autore si avvalgono di vari contributi (Augè, Bauman, Baudrillard, Benasayag, Frances, Laffi, Lazzarini, Massa, Palmieri e Pierangelo Barone che firma la prefazione), a dimostrazione delle svariate implicazioni che questi cambiamenti epocali, ampliati dalle derive tecnocratiche, possono produrre. Potere, soggettività, postmodernità è suddiviso in due parti: La medicalizzazione delle differenze, prima parte, analizza i principali ambiti entro cui si instaura una relazione di potere dettata da ruoli verticali (ad es. medico/paziente, insegnante/allievo) e fa notare come il linguaggio giudicante si insinui in maniera arbitraria al fine di ampliare le categorie di comportamento definite anomale da un codice utile al neoliberismo. Questo per inglobarle in una denominazione presa a prestito dal DSM (manuale diagnostico statistico redatto dalla potente lobby degli psichiatri statunitensi che è ormai diventato una sorta di vangelo e non soltanto per gli operatori del settore) e veicolarle nei protocolli scolastici, inquadrando così le naturali difficoltà in «disagio», «inadeguatezza» o «disabilità»: stigmi e discriminazioni, irrispettose delle fasi di crescita tipiche dell’età evolutiva e delle risorse insite in ciascuna bambina o bambino, che condizioneranno la percezione di sé e del mondo circostante, nonché delle possibilità future. Scrive Dambrosio: «Poiché gli standard di prestazione sono aumentati in modo vertiginoso e gli stimoli esterni agiscono oggigiorno in modo continuativo e invasivo basta un sintomo di troppo per essere delineati come anormali e quindi assoggettabili a un trattamento farmacologico-rieducativo finalizzato al recupero o alla prevenzione continua della devianza e della marginalità sociale. (…) Ne deriva la totale conformazione a un’intelligenza che non è altro che la capacità di disintegrarsi per conformarsi al sistema-azienda post moderno». Nella seconda parte dal titolo Assoggettamento e soggettivazione nell’epoca post-moderna, viene analizzata la deriva spazio-temporale che coinvolge direttamente l’esistenza di ogni persona: il corpo, la mente, la relazione con i propri simili e l’ambiente, le modalità di poter disporre di luoghi e orari. La decodifica sociale scandita da esasperazioni digitali, come gli algoritmi, risulta tanto coinvolgente da esser illusoriamente percepita come opportunità gratificante, anziché come una gabbia che diseduca alla relazione e al confronto.Non a caso la psichiatria sta elencando sintomi e trovando nuove denominazioni per rinchiudere entro una descrizione patologica ogni mancato adeguamento a queste modalità e sull’argomento avremo di che approfondire negli anni a venire.Questa seconda sezione del libro si focalizza sull’interrelazione fra i concetti di «non spazio», «non corpo» e «non tempo»: una distopia? Eppure la nostra quotidianità non ne è scevra, in quanto la regolamentazione coercitiva del tempo/spazio si insinua nelle nostre azioni con una prospettiva impalpabile e progressiva. E qui Dambrosio sente l’urgenza di dare forma a paradossi e decifrarne i significati affinché non ci travolgano, si colgano in tempo le implicazioni più nefaste, si riconoscano gli squilibri conseguenti e si concretizzino esperienze resistenti in luoghi liberi da simbologie omologanti nel rispetto di ritmi cadenzati sui bisogni. L’autore, utilizzando una sintesi espositiva efficace, alterna la critica all’esistente con proposte di superamento, privilegiando gli aspetti educativi nell’ottica di una pedagogia critica, non con l’intento di offrire soluzioni indiscutibili ma per avviare spunti di dialogo in contrapposizione al dilagante senso di impotenza e porre «fine al dispositivo di annichilimento della libertà del soggetto, per assumere quello di insegnamento dei modi attraverso cui l’individuo può praticare la libertà». Ribadendo questo concetto, nell’ottica di una coerenza fra mezzi e fini, crea una linea di continuità con la sua recente pubblicazione per le edizioni Mimesis: Spazio delle mie brame, dedicato ai luoghi dell’apprendimento dove «la scuola, così come è stata sin d’ora concepita e tanto più riformata nella sua versione digitale, che definirei tecno-fascista, risulta esser lo spazio educativo meno adeguato alla sperimentazione». Troviamo dettagliate descrizioni inerenti agli ambienti scolastici appositamente strutturati per divulgare un sapere univoco e per impedire contatti con il circostante condizionando la libertà di insegnamento, tanto che per attuare progetti o piccole sperimentazioni si devono raggirare gli impedimenti burocratici e avversare quegli approcci professionali tesi soltanto a un deleterio adeguamento. Si potrebbero comunque considerare come palliativi lontani da ciò che, come anche Foucault sosteneva, dovrebbe intendersi come luogo di partenza per ogni forma di utopia: luoghi dove «il corpo risulta esser il vero protagonista, un corpo che sperimenta e sonda i propri limiti, che esalta tutte le sue potenzialità vitali». Ecco perché le osservazioni di Dambrosio, col suo sguardo privilegiato alla scuola pubblica, risultano avvincenti per avviare un dibattito sulla qualità di ogni progetto educativo: «il lavoro proposto, inserendosi nella prospettiva di una pedagogia critica, affronta dunque in generale l’importante e spinosa questione del potere in educazione e in particolare indaga l’elemento spaziale del dispositivo disciplinare strutturale». La riflessione sugli ambiti idonei ad accogliere relazioni educative rispettose dei bisogni, a prescindere dal ruolo che vi si svolge, è un primo doveroso passo per poter attivare esperienze didattiche di superamento dell’attuale impostazione strumentale al controllo, all’inibizione degli interessi, alla rincorsa verso modelli precostituiti di comportamento inquadrati entro una cornice di accettabilità sempre più ristretta. L’eccessiva digitalizzazione è un strumento utile all’ideologia meritocratica; mentre l’aspettativa si fa sempre più performante e la richiesta di allineamento agli standard crea una forbice più ampia, dilaga l’individuazione di condotte anomale per le quali viene richiesto un supporto in terminipsicologici e medici: a causa della mancata presa in carico pedagogica, basata sull’osservazione, l’ascolto e la relazione, questi nuovi dispositivi di controllo riescono a plasmare un’uniformità disarmante. E se la scuola si avvale di protocolli normativi statici, dove l’utilizzo di termini come «comunità educante» o «partecipazione» maschera un rigido approccio al sapere considerato al pari di una merce da assimilare e incasellato in valutazioni selettive mentre non si stimolano le capacità critiche o non si valorizzano le curiosità e il piacere della scoperta, questo avviene anche perché gli ambienti scelti per l’istruzione sono strutturati a tal fine, con l’imperante spauracchio della prevenzione a fini di sicurezza che spesso blocca sul nascere qualsiasi proposta innovativa. Dambrosio prende a riferimento vari autori e, pur tralasciandone di fondamentali come Colin Ward (in particolar modo le sue anticipazioni sull’argomento in: L’educazione incidentale, elèuthera, Milano 2018), appare chiara la volontà di contribuire a un dibattito in termini libertari, di dar voce alle esigenze delle giovani generazioni ed entrare in empatia con i loro desideri, nel tentativo di osteggiare alla radice gli intenti di un sistema gestionale delle esistenze dove l’omologazione è funzionale alla delega e alla de-responsabilità. Egli rilancia l’idea dell’educazione diffusa, cioè di una scuola inserita nell’ambiente urbano dove l’insegnante diventa guida ispiratrice nel cercare risposte alle curiosità, dove le «competenze» assumono un significato plurale di interrelazione fra saperi: una città diffusa che si fa spazio educativo e luogo di apprendimento attraverso il coinvolgimento di chi vi vive, vi lavora, vi transita. Una scuola che non sarebbe più chiusa fra mura ma è parte del territorio circostante perché con esso entra in continua relazione: a saperli individuare anche in una città vi possono essere molti «nodi strategici pensati per rendere l’apprendimento dei minori qualcosa di vivo e vitale, stravolgendo nei metodi, negli strumenti e nelle finalità la formazione. (…) Accompagnandoli verso quel nuovo oggetto del desiderio che è il mondo stesso, il mondo reale fatto di piazze, di strade, di ponti, di stazioni metropolitane, di parchi, così come di boschi, di campi, ed insperate, se non improbabili scenografie dell’esistenza».Ecco allora che mettere in discussione gli spazi educativi rimanda imprescindibilmente alla presa in carico dei luoghi dove l’esistenza sociale prende forma attraverso scelte etiche, filosofiche, politiche che rimettano al primo posto l’aspetto relazionale e il coinvolgimento attivo di chi è protagonista di una determinata esperienza; fare ciò, infine, implica parlare di approcci critici al sapere o, come suggerisce Francesco Muraro nella postfazione di Spazio delle mie brame, di «diritto a un’istruzione liberata».