L'ennesimo esperimento del "Laboratorio Argentina": l'anarco-capitalismo di Javier Milei
Dal 10 dicembre scorso la Repubblica Argentina ha un nuovo Presidente. Si tratta di Javier Milei, che prima di diventare Deputato del Congresso nel 2021, era noto al pubblico argentino come polemista televisivo e radiofonico su temi di politica ed economia. Tanto sui media quanto nella sua recente carriera politica, Milei ha sempre ostentato la predilezione per teorie libertarie estreme, così da essere avvicinato da più di un osservatore alla dottrina anarco-capitalista.
In questo contributo sono definiti il quadro di riferimento ideologico e i principali elementi di questa filosofia politica (Sezione 1), invero poco nota, ed è proposta un’interpretazione dei motivi di instabilità economica dell’Argentina che hanno portato l’elettorato a optare per la proposta di Milei (Sezione 2); infine, sono analizzati gli elementi di continuità e di rottura, soprattutto quelli più vicini alla dottrina anarco-capitalistica, riscontrabili nel discorso politico del neo-Presidente (Sezione 3).
1. La teoria anarco-capitalista
Quando all’inizio degli scorsi anni ‘70 il modello del costituzionalismo post-bellico e la sua raffigurazione data dal welfare state entrano in crisi, gli spazi della teoria economica e della dottrina della scienza politica si evolvono alla ricerca di nuovi paradigmi. Se in ambito economico la critica neoclassica di ispirazione liberale si appunta principalmente sulle teorie keynesiane, responsabili di distorcere l’efficienza del mercato e di immolare la razionalità al servizio di obiettivi di redistribuzione non sostenibili nel lungo periodo, la condanna della scienza politica si appunta sulla riproposta dello Stato-Leviatano, il quale reagisce agli ormai diffusi e conclamati esempi di fallimento del governo alterando le regole stesse che dovrebbe tutelare, confiscando arbitrariamente i diritti individuali ed esasperando il ricorso all’intervento autoritario, come reso evidente dalla proliferazione diffusa di decreti e dispositivi tesi a rafforzare gli esecutivi (Gozzi 1980).
La letteratura sulle scelte pubbliche si concentra su due categorie di risposta al problema del nuovo Leviatano, entrambe rivolte all’alleggerimento del ruolo dello Stato. La prima soluzione si fonda su un’azione collettiva di negoziazione di un nuovo contratto sociale incentrato sul riconoscimento di valori e diritti comuni. Questo contratto sociale è l’unico bene pubblico necessario al funzionamento della società così rifondata e la sua difesa – che può implicare anche il monopolio della funzione coercitiva – è l’unico ruolo designato per l’apparato governativo (Anderson e Hill 1979). Si tratta di una concezione ben rappresentata dall’impianto teorico dello Stato minimo di Nozick (1973) e dal neo-contrattualismo di Buchanan (1975) e Tullock (1972), ma compatibile anche con interpretazioni à la Rawls (1972) di miglioramento delle condizioni del più svantaggiato.
La seconda soluzione invoca, nella sua forma più estrema, l’eliminazione di qualunque azione collettiva, sostituita dallo scambio di diritti privati sul mercato dei servizi, ivi compresi quelli di giustizia e protezione (Anderson e Hill 1979). Nella sua forma sublimata, questa visione è compatibile con l’annullamento dell’azione statale: la produzione di beni pubblici è privatizzata, la fornitura dei servizi essenziali scollegata dal suo finanziamento attraverso la fiscalità e l’impianto legislativo sostituito dalla definizione di una serie di contratti di carattere privatistico. Al contrario del neo-contrattualismo questa dottrina non propone un nuovo modello valoriale, ma si limita alla adozione di una tecnica sociale, ovvero l’economia di mercato, per consentire a ciascun individuo di ottenere i servizi richiesti in un contesto di massima concorrenza, razionalizzando ex-post la scelta soggettiva propria di un libero sinallagma (Gozzi 1980).
I fautori di questa filosofia si definiscono «anarco-capitalisti», a rimarcare i due fuochi della loro ideologia: l’anarchia, intesa come superamento di qualunque forma di Stato, resa effettiva solo dall’affidamento al mercato dei servizi necessari al pieno godimento dei diritti individuali (Holcombe 2005) e il capitalismo, nella interpretazione à la Rand (1989) di «sistema in cui gli uomini possono rapportarsi non come vittime o carnefici, non come padroni o schiavi, ma come liberi protagonisti di scambi volontari per il reciproco beneficio».
Il paradigma anarco-capitalista vede tra i suoi teorici principali: Rothbard (1973), che auspica una società formata non da cittadini guidati dal principio di sovranità popolare, bensì da clienti in rapporto contrattuale di mercato con una serie di fornitori di servizi diversi; Friedman (1973), che rifiuta l’ipotesi di una società esposta al caos, poiché tutti i servizi di sicurezza e l’esercizio della giustizia sarebbero affidati ad agenzie private incaricate di fornire il servizio sì in concorrenza reciproca, ma con modalità di risoluzione non violenta delle dispute; Hoppe (2001), che – recuperando Rothbard – teorizza la liceità di esclusione o di sospensione dei diritti civili e umani quando in conflitto con il diritto di proprietà, a essi superiore. Block (1976), che sottomette il principio di inalienabilità della persona a quello di efficienza del mercato, tollerando di conseguenza schiavitù contrattuale, tratta degli esseri umani e libero commercio degli organi.
Al di là della letteratura scientifica, è interessante notare come l’anarco-capitalismo sia citato anche in un romanzo di fantascienza, che immagina l’adozione negli Stati Uniti di un sistema ispirato ai suoi principi in reazione all’ennesimo episodio iperinflazionistico. Quello che secondo alcuni potrebbe essere il futuro dell’Argentina con Javier Milei.
2. L’eterno groundhog day dell’economia argentina
Alla conclusione del secondo conflitto mondiale, l’Argentina può vantare una delle situazioni economiche più floride al mondo: risparmiata completamente dalle distruzioni belliche, la fornitura di prodotti alimentari ai Paesi belligeranti le ha consentito di accumulare ingenti riserve in moneta estera e oro, un attivo destinato a crescere con l’espansione del commercio internazionale, e una posizione creditoria netta nei confronti di molti Stati, tra i quali la Gran Bretagna. A partire da questo momento, tuttavia, il Paese rioplatense precipiterà progressivamente in uno stato di disordine caratterizzato dal punto di vista economico dal susseguirsi di episodi di ripudio del debito e di inflazione a due quando non a tre zeri e, dal punto di vista politico, dal continuo ritorno del peronismo in alternanza – almeno fino all’inizio degli anni ‘80 – alla presa di potere dei militari.
La figura chiave del dopoguerra è quella di Juan Domingo Perón, che – dismessa l’uniforme di colonnello dell’esercito nel 1945 – fonda un movimento politico a ideologia corporativista ed è eletto Presidente. Perón inaugura una nuova stagione di nazionalismo economico incentrata su espansione dei comparti industriali leggeri e creazione dell’industria di Stato, scelta che risponde all’obiettivo di favorire i ceti lavoratori urbani, solida base del suo potere. Puntando infatti sulla produzione di beni per il mercato interno, Perón tutela i consumi a scapito delle esigenze dell’industrializzazione pesante e utilizza il settore industriale come strumento di assorbimento della disoccupazione e di redistribuzione del reddito dalle classi agrarie esportatrici a quelle operaie urbane. Quello industriale argentino è soprattutto un settore dispensatore di occupazione assistita da parte dello Stato, così inefficiente da dovere la propria sussistenza esclusivamente alla protezione tramite tariffe e sussidi (Gerchunhoff 1989).
Se i risultati di breve periodo di questa politica sono confortanti, con aumento del reddito reale e rapida espansione dei consumi interni, il mancato investimento nella competitività delle produzioni nazionali lascia presto il passo a effetti negativi che si calcificano nell’apparato economico nazionale: inflazione congenita, conseguenza sia delle politiche salariali espansive che del contenimento dei tassi d’interesse, estensione del deficit di bilancio, peggioramento del saldo commerciale con l’estero. Soprattutto, il modello economico di Perón sconta il peccato originale di impoverire la fonte stessa dello sviluppo, vale a dire il settore agricolo esportatore. La politica di calmieramento dei prezzi alimentari e il drenaggio dei capitali dagli esportatori di carne e cereali ai comparti industriali leggeri sacrificano le possibilità di ammodernamento e crescita dell’unico settore competitivo sui mercati internazionali, quello agricolo, per sostenere i salari di settori incapaci di reggere qualunque forma di concorrenza estera. Dopo appena tre anni, il presunto miracolo economico argentino lascia il campo a una crisi di difficile gestione, combattuta dallo stesso Governo peronista e, dopo il golpe del 1955, dal governo militare con il rilancio del settore agricolo, che però genera improvvisa carenza dei generi alimentari destinati al mercato interno e conseguente aumento indiscriminato dei prezzi al consumo.
Da questo momento, la necessità di reperire risorse da trasferire ai settori industriali, forieri di occupazione e consenso politico, è affrontata di volta in volta con la cessione a privati, spesso compagnie straniere, del patrimonio di Stato, con l’indebitamento sui mercati dei capitali e, quando l’avvenuta dismissione di tutti gli asset appetibili o l’ennesimo default sul debito rendono queste soluzioni impraticabili, con emissione di moneta da parte di una Banca Centrale ancora sotto il controllo governativo.
Ma la più ingombrante eredità lasciata da Perón, con cui dovranno fare i conti i partiti e i governi eletti negli anni successivi, sarà a ben vedere lo stesso peronismo: la proscrizione come partito del primo movimento di massa del Paese, decisa all’indomani del golpe e mantenuta di fatto per quasi trent’anni, avrà infatti la duplice conseguenza di non permettere il consolidamento di un sistema politico pienamente democratico e di introdurre la psicosi della presa di potere peronista per via indiretta o violenta, un timore a cui si risponderà con colpi di mano periodici da parte dell’esercito.
Il ritorno della piena democrazia elettiva all’indomani della psicotica dittatura del Proceso de Reorganización Nacional e della fallimentare avventura militare nelle Falkland, lascia dapprima il Presidente radicale Alfonsín e poi il peronista (di destra) Menem a misurarsi con gravi episodi iperinflazionistici. L’ultimo di questi spinge Menem, eletto con un programma tipicamente peronista di sostegno ai redditi e spesa pubblica, a introdurre una politica economica di rigida osservanza monetarista, affidata al nuovo ministro dell’economia Domingo Cavallo. Questi introduce per legge un cambio fisso Peso-Dollaro 1:1 che impedisce di fatto alla Banca Centrale interventi di politica monetaria, avvia un’ulteriore tornata di grandi privatizzazioni (finalizzata non solo ad alleggerire la spesa pubblica, ma anche e soprattutto a reperire i dollari necessari a difendere il nuovo tasso di cambio) e limita le libertà sindacali.
Inizialmente Menem riesce a interrompere il circolo vizioso spesa pubblica-inflazione e a riconquistare la fiducia degli investitori stranieri, con il susseguirsi di stagioni in cui il Prodotto Interno Lordo cresce stabilmente a tassi annui attorno all'8%, ma nemmeno in questo caso l’andamento si consolida. A partire dal 1995, infatti, riemerge, seppure per canali diversi, il problema strutturale dell’economia argentina post-bellica, ovvero la distorsione delle politiche pubbliche in favore dei settori non esportatori. La liberalizzazione del mercato interno alle merci di importazione e la fissazione di un tasso di cambio che sopravvaluta fortemente la moneta nazionale sottopongono a pressione insostenibile il sistema industriale interno, con incremento esponenziale dei fallimenti di imprese, taglio dell’occupazione pubblica, forte contrazione dell’impiego e, in ultima istanza, dei consumi (Nochteff 1996). A inizio millennio diviene evidente che la difesa del tasso di cambio brucia le riserve della Banca Centrale a un ritmo tale che solo i prestiti da parte del Fondo Monetario Internazionale possono permettere. Ma a fine 2001 il FMI rifiuta l’ennesimo appoggio e l’intero impianto politico ed economico nazionale tracolla.
Dopo un periodo di transizione in cui si susseguono nel giro di due settimane tre Presidenti ad interim, il secondo dei quali dichiara il default unilaterale su un debito di circa 170 miliardi di dollari, la situazione si stabilizza grazie all’ascesa all’interno del partito peronista di una nuova corrente di sinistra, guidata da due politici della provincia meridionale di Santa Cruz. Si tratta dei coniugi Kirchner, Nestor e Cristina Fernández de Kirchner, che monopolizzeranno di fatto i vent’anni successivi della politica nazionale.
La lunga stagione kirchnerista alla guida del Paese, con Nestor Presidente nel 2003 e Cristina a succedergli con due mandati dal 2007 al 2015, per poi tornare con la Presidenza di Alberto Fernández nel 2019, ripercorre l’andamento tipico dell’economia argentina: un primo periodo di forte crescita, sospinta da politiche di ispirazione keynesiana e impulso alle esportazioni (Pozzi e Nigra, 2015), seguita dalla crisi. Quando dopo il 2008 i prezzi internazionali delle derrate agricole calano, la spesa pubblica si sostituisce agli avanzi di bilancia dei pagamenti nel finanziare i consumi interni, riaccendendo inflazione e indebitamento. Indebolito anche da accuse di corruzione e in rotta con gli altri poteri dello Stato, in particolare con la magistratura, il potere peronista lascia il passo all’esperimento liberale di Mauricio Macri, imprenditore con un passato di sostenitore di Menem ed ora alla guida di un nuovo movimento di dichiarata ispirazione di centrodestra dal nome evocativo di Cambiamo (Hernandez 2019; Niedzioiecki e Pribble 2017).
Macri inaugura una serie di politiche di rottura con i predecessori, improntate ai capisaldi delle teorie liberiste: drastica riduzione dei sussidi statali alle famiglie, eliminazione progressiva dei controlli su tassi di cambio e prezzi dei beni alimentari, delle quote a import ed export, liberalizzazione del prezzo dei servizi pubblici, accompagnati dall’impegno a non aumentare l’imposizione fiscale e dalla negoziazione con il FMI internazionale nel 2018 di un nuovo prestito di 57 miliardi di dollari, il più elevato nella storia dell’istituzione. Se la capacità di rallentare l’inflazione e di ridurre il debito pubblico è raggiunta, le misure di austerità imposte si fanno sentire, cosicché alle nuove elezioni presidenziali del 2019 l’elettorato torna a premiare l’opzione peronista.
Il nuovo inquilino della Casa Rosada è Alberto Fernández, ma la figura di spicco del governo è ancora Cristina Kirchner, questa volta nel ruolo di vice-presidente (ABAL MEDINA 2020). Dal punto di vista economico, il nuovo quadriennio peronista vede pochi sussulti e ancora meno successi, con un altro episodio di ristrutturazione del debito nel 2020. Dal punto di vista politico, l’ennesimo ritorno del peronismo e, soprattutto, di una discussa Kirchner, favorisce anche in Argentina il sempre più marcato distacco della società civile e un crescente apprezzamento per il semplicismo populista. In questo clima di profonda avversione per la classe politica e con una crisi economica sempre più grave, emerge da assoluto outsider Javier Milei.
3. Ideologia e prassi di Javier Milei
Assistito da una formazione economica che lo ha portato ai vertici di istituzioni finanziarie e gruppi bancari, oltre che a insegnare in alcuni atenei nazionali, Javier Gerardo Milei conosce nuova fama a partire dal 2015, quando irrompe nel mondo dei media e della carta stampata curando rubriche di economia e critica politica.
La vena polemica e l’avvicinamento – invero piuttosto tardivo – alla scuola austriaca dell’economia lo portano a sviluppare un vero e proprio astio nei confronti della classe politica argentina, astio che sfocia nella fascinazione per le teorie «libertariane ». Il suo esordio politico è in occasione delle consultazioni per il rinnovamento della Camera dei deputati del 2021, quando fonda un nuovo soggetto politico (La Libertad Avanza, LLA) di ispirazione liberal-conservatrice a sostegno della sua elezione alla circoscrizione della Capitale. Nemmeno due anni dopo si presenta come candidato al primo turno delle Presidenziali, imbracciando una motosega e promettendo, al grido di «trema la casta», tagli drastici al bilancio dello Stato e ai costi della politica. Primo per preferenze con il 30% dei voti, si conferma al ballottaggio di tre mesi dopo con 10 punti percentuali di vantaggio sul candidato peronista Alberto Massa.
Il Milei Presidente eredita una situazione di grande difficoltà: i dati ufficiali registrano il 40% della popolazione al di sotto della soglia di povertà, l’esistenza di un cambio parallelo Peso-Dollaro pari a 2,75 volte quello ufficiale (giunto nel frattempo a 365 pesos per dollaro), un debito pubblico pari al 90% del PIL e in crescita continua, e un tasso di inflazione presuntiva al 200% che Milei, forte della mancata misurazione ufficiale imposta da alcuni anni dal governo kirchnerista, sostiene essere «proiettata verso il 15.000%».
Un simile scenario macroeconomico si presta all’applicazione di politiche ortodosse, come avvenuto in passato con l’accoppiata Menem-Cavallo e – più di recente – con Macri, divenuto dopo il primo turno alleato parlamentare di Milei: taglio della spesa pubblica per ridurre il peso del debito, politiche monetarie restrittive in chiave anti-inflazionistica, liberalizzazione dei mercati in modo da favorire l’eliminazione delle imprese più inefficienti e tutelate dal sostegno pubblico. Milei ha ricevuto una investitura popolare diretta e indiscutibile per agire in questo senso, anche se – complici la sfasatura tra elezioni presidenziali e parlamentari prevista dal sistema argentino, il suo carisma personale e la recentissima vita del suo partito – alla maggioranza dei voti elettorali non corrisponde una maggioranza politica all’interno del Congresso.
I primi 90 giorni della Presidenza Milei hanno visto il Governo oscillare tra misure volte a blindarne l’azione, segnali di coerenza rispetto alle promesse elettorali, ad esempio il taglio nel numero dei dicasteri e l’eliminazione dei controlli sui prezzi, e politiche in netto contrasto con il messaggio originale, quali l’aumento delle prestazioni sociali, con raddoppio dell’assegno famigliare per figlio e incremento del 50% del contributo statale per l’acquisto di beni alimentari degli indigenti. Nel frattempo, è scattato il primo sciopero popolare contro le misure previste dalla «Legge omnibus» (Megadecreto de Necesidad y Urgencia), destinata a introdurre tagli alla spesa pubblica, privatizzazioni e riduzione del sostegno a costi dei trasporti e alle bollette energetiche delle famiglie, poi ritirato dalla stessa compagine di Governo per evitare il rischio della débâcle parlamentare.
Come rimarca Pablo Gerchunoff, eminente storico dell’economia argentino: «La società è molto volubile (…) fa presto a rivoltarsi: ‘Questo non è quello che mi avevi detto. Mi hai parlato di colpire la casta, di colpire lo Stato e invece colpisci me’. Il cambiamento non è senza costo». Per poi concludere: «D’altro canto, a tutti i Presidenti è stato concesso tempo e questo deve valere anche per Milei». Se è ancora troppo presto per capire quale sarà la prassi politica effettiva di Milei, è innegabile che il suo discorso politico sia intriso di molti principi propri dell’anarco-capitalismo. Quest’ultimo è senza dubbio alla base dell’enfasi sulla riduzione delle prerogative dello Stato – con taglio dei ministeri e proposta di forte riduzione del personale pubblico – e sull’abbattimento dell’imposizione fiscale. Risponde inoltre a una visione anarco-capitalista l’idea di rinunciare al Ministero per l’Istruzione e affidare la copertura dei costi scolastici a voucher da impiegare in scuole scelte individualmente dalle famiglie, sebbene la logica anarco-capitalista pura esigerebbe la scomparsa del finanziamento pubblico ai voucher stessi.
Anche la proposta di dollarizzazione completa dell’economia è un concetto che ben si sposa con la dottrina anarco-capitalista, non tanto per il corollario della eliminazione delle prerogative della Banca Centrale nazionale, ma soprattutto perché risolverebbe la contraddizione – spesso presente nell’opera dei principali teorici anarco-capitalisti – di anelare a un sistema interamente fondato sul mercato, senza tuttavia chiarire a quale agenzia sarebbe affidato il compito di fornire gli strumenti di pagamento necessari alle transazioni. Con il ricorso a una moneta estera, si raggiunge l’obiettivo di terzietà del fornitore rendendo inoltre praticabile l’opportunità, tipicamente anarco-capitalista, di scegliere liberamente tale fornitore sul mercato internazionale delle valute.
Infine, è del tutto in linea con i concetti blockiani e rothbardiani quella che al momento è forse la presa di posizione più «contundente» di Milei, così sopra le righe da fare sospettare che si tratti di una boutade propagandistica: l’idea di avviare in Argentina un mercato legale di organi umani. Segnalata da Milei nel 2022, come opportunità per chiunque non abbia altro da offrire al mercato, la questione è stata ripresa di recente – invero con contorni piuttosto nebulosi – dalla neoministra agli Esteri Diana Mondino. Del tutto in contraddizione con questi principi, invece, il ricorso a un decreto di necessità e urgenza per rafforzare l’azione di governo, espediente segnalato spesso come manifestazione plastica dello Stato-Leviatano, peraltro utilizzato a piene mani da un criticatissimo Menem nel corso della sua Presidenza.
Ciò che resta della cosmogonia di Milei pare fondato sui concetti basilari dell’ultra-destra: la dura presa di posizione verso l’aborto, un anticomunismo di concezione anacronistica, che lo ha portato a inquadrare tra i principali nemici della nazione nientemeno che Jorge Bergoglio, un forte sospetto nei confronti dell’internazionalismo, come dimostrato dall’incipiente opposizione nei confronti del Mercosur e degli altri accordi regionali che vedono coinvolta l’Argentina.
In conclusione, viene da chiedersi se con Milei siamo di fronte a una versione rioplatense di quella tendenza che vede emergere leader populisti in tutto il mondo o se non stiamo invece osservando una proposta del tutto originale. A prescindere dalla capacità di superare i problemi che affliggono qualunque governo di minoranza, al di là della asprezza lessicale e del semplicismo istituzionale del suo discorso politico, elementi che lo avvicinano alla figura classica del leader demagogo, in Milei l’elettorato ha probabilmente riconosciuto qualcosa di marcatamente argentino: la figura guida, il condottiero che comprende in modo intuitivo la situazione e decide con rapidità per il bene della nazione, sfidando gli innumerevoli nemici interni ed esterni. Con Milei siamo di fronte all’ennesimo ritorno del leader che dialoga direttamente con le masse, ma con la novità che, per la prima volta, tale leader non è peronista. In questo senso, risulta illuminante un altro passaggio della già citata intervista a Gechunoff: «In tutti i piani di stabilizzazione, chi patisce di più è la classe media. Questo è più facile da mettere in pratica per un governo peronista, perché la sua base elettorale è popolare. Nel caso di Milei è interessante, perché il suo consenso è trasversale».
Resta quindi da capire a chi l’anarco-capitalista Milei, se e quando riuscirà a superare l’opposizione parlamentare, presenterà il conto delle riforme.