La cura come principio organizzatore della società: una lettura del "Manifesto della Cura" di The Care Collective
Di critiche al neoliberismo se ne sono prodotte tante, tantissime negli ultimi decenni, in alcuni casi accompagnate da proposte alternative che vanno dal timido riformismo alla rivoluzione radicale. Il Manifesto della cura è una di queste. La sua particolarità sta nel fatto di utilizzare come centro della riflessione critica e della proposta concreta il concetto di cura. Autore del Manifesto è il gruppo The Care Collective, un collettivo inglese composto da persone del mondo accademico e dell’attivismo sociale. Fin dalla sua nascita, anno 2017, il gruppo di studio si è occupato della «crisi della cura» e con la pandemia, durante la quale le questioni legate alla cura sono diventate centrali, ha condensato le sue riflessioni nel Manifesto.
1. Critica al neoliberismo
Il neoliberismo è un sistema economico che si fonda sull’estensione delle pratiche che portano a estrazione del profitto e che contemporaneamente minaccia o elimina quelle che non lo permettono. È quindi un sistema che si fonda sull’incuria (carelessness) e che fagocita nei suoi processi tutte le azioni di cura che possono essere tradotte in scambio economico e ostacola o rende invisibili le altre. Con la sua capacità di assorbimento è riuscito a creare un cortocircuito per il quale sono ammesse e incoraggiate le pratiche di cura individuale (selfcare) legate ai concetti passpartout di resilienza, crescita personale e benessere (wellness), spingendo contemporaneamente i governi a demolire l’idea di benessere comunitario e sociale e le relative strutture (welfare). Sostituire all’incuria la cura come principio organizzatore delle pratiche sociali è, secondo il collettivo di autori e autrici, la chiave per poter uscire finalmente da un sistema che sembra inscalfibile per la sua capacità di assorbire tutto, anche le forze contrarie.
2. Come fare? Partire dall’individuo e dalla famiglia: cura universale e cura promiscua
La proposta si articola in vari livelli. Il primo livello di trasformazione parte dall’antropologia dell’individuo: ogni essere umano è per sua natura «dotato di valore intrinseco ed è dipendente dagli altri. Nella cultura neoliberista la dipendenza dalla cura è stata patologizzata anziché essere riconosciuta come parte integrante della condizione umana» (p. 37), e questo perché riconosce come maschili, e quindi migliori, l’autonomia e l’indipendenza, e come femminili, e quindi peggiori, l’interdipendenza reciproca in quanto espressione di fragilità e debolezza (oltre al fatto che prestare cura è da sempre considerato un lavoro da donne e quindi di serie b). Accettare che ogni individuo è contemporaneamente bisognoso di cura e degno di ricevere cura vuol dire riconoscere come diritto e dovere di ciascuno la cura universale e quindi l’ideale di una società in cui la cura sia al centro di ogni aspetto della vita e dove tutti siamo responsabili in maniera collettiva del lavoro di cura, sia a livello quotidiano sia nella sua accezione di sostegno necessario per la tutela della comunità e del mondo intero. Questo non vuol dire che «tutti devono fare tutto», ma che dobbiamo organizzare la nostra realtà dal micro (l’individuo), al macro (lo Stato) in modo che tutti possano dare e ricevere cura, essere umani, animali e ambiente. Il secondo livello è sostituire la cura familiare con la «cura promiscua», cioè con un’etica che gli autori e le autrici riprendono dalle comunità afroamericane deprivate dei giusti mezzi di sussistenza dal razzismo e dai movimenti LGBTQ+ e delle persone malate di AIDS degli anni ‘80-‘90, in cui, per garantirsi quel sostegno negato dallo Stato, si creavano «famiglie per scelta», famiglie in cui i legami di sangue non erano necessari per garantirsi reciproca cura. «Cura promiscua non significa relazioni effimere tra estranei. Significa invece riconoscere che la cura può mettere in relazione persone non necessariamente vicine» (p. 53).
3. Coltivare comunità di cura
Il terzo livello sono le «comunità di cura» ovvero quegli spazi in cui è possibile agire la cura promiscua e universale, che vanno costruiti e ampliati continuamente nei contesti reali in cui viviamo: biblioteche, scuole, comunità di quartiere, gruppi e reti sociali… Esse si basano sul mutuo soccorso, si sviluppano dentro lo spazio pubblico, danno priorità alla condivisione delle risorse, e sono democratiche. In questi spazi si esercita una democrazia reale, e l’invito è quello di portare questo spirito all’interno di ogni tipo di gruppo sociale a cui apparteniamo nelle nostre realtà e di spingere i nostri governi a garantire infrastrutture e risorse, contrapponendo al «capitalismo compassionevole e alle temporanee soluzioni di cura una cura municipale», offrendo cioè alla comunità mezzi per potersi auto-organizzare e praticare la cura in forme democratiche.
4. Stato di cura ed economia della cura
Come abbiamo visto il collettivo individua, in ultima istanza, lo Stato come fornitore delle infrastrutture, degli spazi e dei mezzi necessari all’autorganizzazione delle piccole comunità democratiche e anche come garante del riconoscimento della reciproca interdipendenza e quindi della cura come principio organizzatore della società. In quest’ottica ogni Stato dovrebbe partire dal riconoscimento delle atrocità compiute nel passato e dalla riparazione materiale delle comunità colpite, dalla decolonizzazione e dal riconoscimento dell’imperialismo come origine delle disuguaglianze: solo allora, sostiene il gruppo di autori e autrici, saremo in grado di coltivare nuove modalità radicali di stare in relazione con gli altri e il mondo intero. Dovere degli Stati è allora lo smantellamento dello stato sociale keynesiano e la costruzione di uno stato di cura che metta al centro i «soggetti storicamente marginalizzati e riconosca a ogni abitante dello stato il diritto di dare e ricevere cura in tutte le sue accezioni». Questo nuovo stato non deve essere succube delle politiche economiche ma fautore di un’economia in cui «i mercati e i mezzi di produzione e consumo siano collettivizzati, socializzati e democratizzati, e quindi invertire il processo che ha sostituito le relazioni sociali con le relazioni tra merci e il valore della cura con il valore di scambio» (p. 88). Centrali sono le politiche economiche basate sui beni comuni e sul controllo democratico dei mercati, le cooperative, il riumanizzare il commercio rigenerando le economie locali.
5. L’ottica globale
L’idea del manifesto è fare una proposta che valichi i confini nazionali perché sia garantita la cura di tutti gli esseri umani e del pianeta intero, quindi anche animali e ambiente. Le proposte sono: lanciare un Green New Deal che permetta di affrontare la questione climatica e che prevede la creazione di «lavori green», l’espansione delle energie rinnovabili, la protezione dell’ambiente, la riforestazione, la riduzione della settimana lavorativa per diminuire le emissioni e aumentare il tempo di vita e i mezzi che abbiamo per prenderci cura di noi. Inoltre, secondo la proposta del collettivo, è necessaria la cancellazione del debito, l’interazione con l’economia femminista e le teorie ecologiste della decrescita, aumentare la porosità dei confini nazionali, agire sulle condizioni di povertà endemica di tante zone del mondo.
6. Conclusioni
Il Manifesto della cura risulta essere un testo molto stimolante e attivante, soprattutto nella parte di critica al neoliberismo e nei primi tre livelli della rivoluzione antropologica che propone: 1. il riconoscimento dell’interdipendenza reciproca; 2. la necessità di interiorizzare i concetti di cura promiscua e universale; 3. l’ampliamento delle comunità di cura autorganizzate, mutualistiche e democratiche.In realtà non sono concetti completamente nuovi, in essi risuonano il «generate parentele, non bambini» di Donna Haraway, le teorie sui Beni Comuni, le T.A.Z. di Hakim Bey (seppure queste siano pensate in opposizione alle istituzioni, e non garantite dalle istituzioni) e altre teorie nate in ambiente anarchico e non. Le proposte di politica internazionale appaiono però generiche, e rischiosamente generico e insidioso il ruolo attribuito allo Stato: può veramente lo Stato farsi garante della cura come principio organizzatore della società? Ci pare una posizione alquanto ingenua. D’altra parte aumentare i livelli di democraticità dentro di noi e nelle nostre comunità (questioni che, come detto, risuonano con molte pratiche dell’anarchismo) può portare a riflessioni interessanti a livello macro. Se il punto di arrivo è meno descrivibile, il punto di partenza del collettivo che firma il Manifesto è chiarissimo: partire da una prospettiva femminista, queer, antirazzista ed eco-socialista. Ognuno di noi avrà considerazioni più o meno critiche rispetto all’eco-socialismo, ma sono convinta che anche all’interno del mondo anarchico sia necessario contaminarsi con le lotte femministe, queer, antirazziste, decoloniali e ambientaliste, perché tutte sono interessate allo smantellamento di agglomerati di potere che impediscono a soggetti specifici umani e non umani l’autodeterminazione e, spesso, la vita. Il Manifesto della cura, in questo senso, è una lettura molto stimolante e con cui si può entrare in dialogo.
The Care Collective, Manifesto della cura. Per una politica dell’interdipendenza, Edizioni Alegre, Roma, 2021.