Il cemento è capitalista?
Il Capitale e lo Stato, che dominano la società moderna, agiscono come un re Mida a rovescio, o come degli alchimisti al contrario: tutto quello che toccano si trasforma in vile piombo e in pena per gli umani, anche quello che si potrebbe chiamare oro. Questo vale naturalmente pure per uno dei grandi campi dell’attività umana: costruire e abitare.
È noto come il capitalismo industriale abbia prodotto fin dai suoi inizi nel Settecento grandi cambiamenti nel concetto di abitare: la crescita delle agglomerazioni urbane ha aperto le porte a nuove disuguaglianze trasformando l’abitazione in merce. Tra le critiche più frequenti troviamo la distribuzione inuguale dello spazio secondo i gruppi sociali, l’insalubrità degli alloggi popolari, e la trasformazione delle abitazioni in oggetti di speculazione. Altri osservatori hanno messo in risalto come certe strutture urbanistiche e architettoniche esprimessero una logica del potere: soprattutto nel caso della costruzione di larghe strade dritte che servivano a combattere gli eventuali rivoltosi che non potevano più erigere barricate o nascondersi nei vicoli stretti e labirintici dei quartieri medievali. I boulevard di Parigi sono l’esempio più noto, ma trovano riscontro in quasi tutte le città europee. Sul piano psicologico invece queste trasformazioni creavano un senso di sottomissione ai padroni, agli occhi dei quali si rimaneva sempre esposti, e sul piano simbolico costituivano un trionfo dei valori di efficacia, velocità, visibilità delle merci e libertà dei flussi. La sostituzione delle antiche mura medievali con dei boulevard, fenomeno frequentissimo alla fine dell’Ottocento, era una vittoria visibile del progresso capitalista.
Il «diritto alla città» (Henri Lefebvre) è diventato, soprattutto dagli anni Sessanta del Novecento in poi, non solo il caposaldo di un’approccio critico all’urbanismo, ma anche la rivendicazione di molteplici lotte sociali nelle metropoli. Tuttavia, un aspetto è rimasto largamente nell’ombra: la questione dei materiali. La sostituzione di materiali tradizionali di costruzione come pietra e legno con il cemento armato era spesso esplicitamente salutata come forma di «progresso» (e il cemento passava allora per«proletario») in nome dell’economicità, della semplicità e dell’igiene, oppure non suscitava nessuna attenzione, perché si supponeva che un materiale valesse un altro.
Ci sono tuttavia delle buone ragione per affermare che il cemento armato (detto anche calcestruzzo) sia figlio del capitalismo, che il capitalismo sia potuto difficilmente esistere senza il cemento e che solo una società capitalista abbia potuto avere un tale bisogno di cemento.
Il cemento, come il petrolio e la plastica, erano o inesistenti, o sepolti nelle profondità della terra senza interessare nessuno prima dell’avvento del capitalismo industriale. Oggi sono tra i materiali più presenti sulla terra, e una società capitalista senza cemento, senza plastica e senza derivati del petrolio è difficilmente immaginabile. Sappiamo però ormai che questi materiali non sono «neutrali» e che hanno il loro prezzo. Il petrolio e la plastica vengono guardati con sospetto da almeno cinquant’anni, mentre il cemento armato è riuscito a mantenere un’aria di innocenza molto più a lungo – per quanto ormai nell’opinione pubblica anche per esso le connotazioni negative prevalgano spesso.
Il cemento esisteva già nell’antichità, ma ha potuto conquistare il mondo solo quando è stato «armato» a partire dal 1870 circa – cioè da quando viene colato in un’armatura, o cassero, normalmente in acciaio. Solamente con un cemento armato è possibile costruire grattacieli, dighe, autostrade, centrali nucleari. Nonostante i suoi precursori romani, il cemento è dunque un materiale tipico del capitalismo industriale (incluse le sue varianti «socialiste» in Unione sovietica o Cina, che vi facevano ugualmente ampio ricorso).
Dopo una diffusione inizialmente lenta, il calcestruzzo trionfa in seguito alla seconda guerra mondiale. Se lo stile dove viene esposto più brutalmente alla vista, il «brutalismo» (il cui nome fa però riferimento al béton brut, il cemento grezzo), è caduto in disgrazia dopo gli anni settanta, la produzione mondiale di cemento non fa che aumentare, soprattutto a causa del suo impiego in Cina: circa mezza tonnellata a testa per ogni abitante della terra, ogni anno! Dunque, l’economia capitalista non avrebbe mai potuto costruire le sue infrastrutture senza un materiale tanto economico, tanto facile da reperire e tanto facile da utilizzare.
Perché questi sono gli aspetti del cemento armato che ne spiegano l’enorme diffusione: è fatto di sabbia, acqua, calce, ghiaia e leganti come l’argilla, materiali molto diffusi sulla terra. La miscela si produce facilmente e costa dunque poco. Qui come altrove, «i prezzi bassi delle sue merci sono l’artiglieria pesante con la quale abbatte tutte le muraglie cinesi», come disse già a suo tempo il Manifesto comunista per descrivere il capitalismo.
Ma dove sta il problema? I componenti del calcestruzzo non sono tossici né direttamente nocivi per la salute umana o l’ambiente. In effetti, i problemi che crea risiedono nella gigantesca quantità in cui viene impiegato e nella tentazione irresistibile di farvi ricorso. Le alte temperature necessarie per la cottura della calce fanno sì che l’industria del cemento è tra i più grandi emettitori di Co2 – vi si aggiunge l’impatto energetico di riscaldamenti e impianti climatici resinecessari dalle cattive qualità termiche delle abitazioni in cemento. Le gigantesche quantità di sabbia necessarie sono all’origine di numerose estrazioni dannose per l’ambiente e gli abitanti, e spesso illegali e imposte con la violenza. Dopo la produzione viene il mantenimento: il cemento possiede tra tutti i materiali di costruzione la più breve durata di vita. L’acciaio all’interno – l’armatura – presto o tardi arrugginisce e può cedere: è quanto è successo a Genova con il Ponte Morandi nel 2018. La durata media di un’opera in cemento armato è di trent’anni, dopo i quali ha bisogno di costante manutenzione che può risultare più costosa di una nuova costruzione. In questo modo, il principio dell’obsolescenza programmata, motore del delirio produttivista capitalista, si è esteso perfino a quanto era da sempre considerato il simbolo stesso della durata, cioè le costruzioni. Ma la «crescita economica» ne trae un grande vantaggio! E dopo la demolizione si pone il problema del trattamento dei detriti. Il riciclaggio è costoso, e la maggior parte dei resti finisce in discariche o semplicemente nel paesaggio.
La grande disponibilità del calcestruzzo incita a un suo uso sempre crescente, anche dove non ce n’è nessuna necessità. Così permette l’artificializzazione dei suoli, il loro consumo insensato che produce con sempre maggiore frequenza delle alluvioni catastrofiche. Ma se si aggiunge in Italia ogni giorno l’equivalente di due campi di calcio alla superficie già «sigillata », che c’è da aspettarsi?
Il cemento armato ha quasi fatto sparire le architetture tradizionali o «vernacolari» che per millenni hanno saputo assicurare alle popolazioni, nel mondo intero, delle abitazioni adeguate al luogo e al clima, spesso di grande pregio estetico e con moltissime variazioni. Nel giro di qualche decennio, il cemento si è imposto ovunque come l’unico materiale di costruzione, o quasi, e con esso una gamma molto limitata di forme architettoniche, insieme a novità come l’aria condizionata, particolarmente nociva. Si è diffusa allora una terribile monotonia e uniformazione delle forme di vita nel mondo, parallela a quella avvenuta in campi come l’alimentazione, l’abbigliamento o le lingue. La colonizzazione dell’immaginario, fulcro della trasformazione del mondo in merce, è passata per il cemento come per la coca-cola, per l’automobile come per la televisione e l’informatica. Certo, l’uso di altri materiali di costruzione non è stato formalmente vietato, cosi come non è (ancora) vietato produrre il proprio vino in casa o chiacchierare con i vicini davanti alla porta invece di stare davanti a uno schermo. Ma il cemento, come gli altri prodotti tipici del capitalist way of life, agiscono come delle «piante invasive» che con la loro semplice presenza tolgono spazio alle forme precedenti di vita, diventate costose, inefficaci, lenti, scomode.
Un altro aspetto del legame tra cemento e capitalismo, più subdolo e difficile da cogliere, ma ben reale, consiste nel suo nesso con il narcisismo. Questa psicopatologia ha trovato una larga diffusione nel tardo capitalismo: i narcisisti sono individui che conoscono solo se stessi e vedono nelle altre persone così come nelle cose solo degli oggetti da manipolare e da dominare. I tradizionali modi di costruzione e i materiali allora utilizzati non si prestavano molto a questo rapporto tirannico con la natura: ogni materiale, ogni luogo, ogni situazione richiedeva un trattamento diverso, una grande attenzione, una forma di rispetto, un corpo a corpo, molta pazienza e un saper-fare trasmesso tra artigiani e arricchito nel corso del tempo, individuale e collettivo. L’architettura vernacolare era il regno dei «capomastri», almeno in Italia. Il cemento, tutt’al contrario, è il materiale ideale per l’arroganza dell’architetto o ingegnere moderno: semiliquido, senza forma propria ma capace di assumere tutte le forme, docile a tutti i voleri di chi l’impiega, uguale ovunque, senza caratteristiche proprie. Dei tratti che condivide con l’altro materiale-faro della società industriale: la plastica. Il calcestruzzo è a disposizione del dittatore o del magnate per il suo grattacielo alto un kilometro o per la sua diga gigantesca, ma anche di chi si costruisce la sua casetta in una favela o la casa abusiva al mare. In effetti, il capitalismo non si identifica più con le sole classi dominanti, ma è diventato un approccio al mondo che si diffonde ovunque, anche se naturalmente in forme diverse. L’uso «interclassista» del cemento ne è la prova.