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George Orwell

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Il modo in cui sono oggi valorizzati gli scritti di George Orwell (nom de plume di Eric Arthur Blair, nato in India nel 1903 e morto a Londra nel 1950) e la sua figura di intellettuale offre spunti di riflessione preziosi per chi ha a cuore la critica dell’esistente e una definizione politica della libertà. Su questo sforzo pesa però una serie di pregiudizi frequenti quando sotto la lente finiscono i classici universali, quali indubbiamente sono Fattoria degli animali (1945) e 1984 (1949). Questo tipo di opere, infatti, è spesso ridotto a una manciata di icone strappate dal loro contesto e lette in pericolosa sintonia con la mercificazione dei prodotti culturali da parte dell’industria dell’intrattenimento. Si ricordi che, divenendo format di un reality televisivo, proprio il personaggio del Grande Fratello inaugurava venticinque anni fa la «cross-medializzazione» banalizzante dei testi letterari cui siamo ormai assuefatti, per cui, oltre a essere tradotti in sceneggiati radiofonici o film, questi diventano oggetto di riprese libere e private del loro potenziale critico da parte di chi commercializza lo storytelling più accomodante attraverso serie televisive, videogiochi, comunità di fan online, parchi turistici, linee di gadget, etc. L’esito è che il senso di libri e autori è derubricato come già noto, in anticipo su qualsiasi approfondimento, men che meno politico, e questo li sottrae all’interpretazione nel presente, permettendo a chiunque ne abbia l’arroganza di citarli senza conoscerli. Così, il «profeta» Orwell in Italia batte di gran lunga Voltaire e Pasolini come l’intellettuale più spesso citato a vanvera da demagoghi, fascisti e complottisti, gli stessi contro cui Orwell stesso non esitò a imbracciare il fucile. Una nemesi che invita a ripensare con urgenza il ruolo della cultura e le funzioni dello studio nella «società delle piattaforme».
Il filo rosso fra questa deriva e la lotta al totalitarismo che animò tutta la vita di Orwell si annoda intorno al concetto di verità e alla difesa di quest’ultima contro la propaganda del potere. D’altro canto, l’atteggiamento franco e demistificatorio è già evidente negli anni della formazione, prima al St Cyprian, poi a Eton, il college più prestigioso di Inghilterra, dove Orwell accede grazie a una borsa di studio. Senza di questa, la famiglia, benestante ma non troppo – la madre è figlia di un commerciante francese di legname dalla Birmania, il padre è ufficiale in Birmania per il Dipartimento Oppio dell’impero inglese – non avrebbe potuto permettersi l’iscrizione. Ma Orwell non tarda a scontrarsi col preside e abbandona gli studi per arruolarsi nella polizia imperiale. Staziona in Birmania dal 1922 al 1927, e quando abbandona la divisa dedicandosi a una scrittura impegnata in difesa degli ultimi – si veda il saggio Perché scrivo (1946) – egli reagisce in primo luogo alle mistificazioni della retorica con cui la corona giustifica le rapine dell’agenda colonialista. A tal riguardo scrive un romanzo (Giorni in Birmania, 1934) e alcuni articoli che a oggi circolano poco, sebbene anticipino le sensibilità degli studi postcoloniali puntando l’indice sulla sudditanza psicologica dell’oppresso, la nocività parassitica dei collaborazionisti e l’intossicamento identitario che la retorica imperialista induce nei pukka sahib, gli «uomini bianchi» che operano a livello militare, burocratico o imprenditoriale negli insediamenti coloniali. Di questi Orwell denuncia l’asservimento al suprematismo inglese che, se da una parte legittima le loro violenze sulle popolazioni indigene, dall’altra li costringe a fingersi superiori quando sanno benissimo di non esserlo, sviluppando una sorta di doppio-pensiero schizofrenico che prefigura quello tematizzato in 1984.
È questo l’Orwell più attuale e avvincente, quello che mette a nudo le contraddizioni psicologiche con cui formuliamo le nostre idee di verità e di normalità, troppo spesso obliterando i condizionamenti economici e del potere. Sono in tal senso irrinunciabili i suoi reportage autobiografici: Senza un soldo a Parigi e a Londra (1933), resoconto in tonalità punk di un periodo passato come sguattero e barbone; La strada di Wigan Pier (1937), ritratto etnografico della classe operaia inglese; Omaggio alla Catalogna (1938), disanima della sua esperienza di volontario in Spagna dove accorre per difendere la repubblica dal colpo di stato franchista, fermare l’avanzata dei fascismi europei e supportare una rivoluzione socialista, ma poi finisce per denunciare la repressione stalinista che avversa questa opzione per ragioni di equilibrismo sullo scacchiere internazionale. Dopo la grande delusione spagnola Orwell scrive il suo romanzo più bello, Una boccata d’aria (1939), una critica della modernità capitalista sospesa fra nostalgia swiftiana e ironia anarchica, lo stesso passatismo apocalittico che ispirerà i già citati capolavori della maturità: la favola Fattoria degli animali e la fantascienza di 1984.
Resta infine assurdo identificare nel socialismo l’arcinemico totalitario di questi libri. È il rigore e l’efficientismo moderno, assieme all’automazione dei processi produttivi e all’omologazione culturale e sociale, il Moloch contro cui Orwell chiamò a reagire contrapponendovi la decency, termine con cui condensava semplicità, franchezza, sobrietà e generosità. Fino alla fine dei suoi giorni, quando stilerà un elenco di diritti inalienabili per la nascente «Lega per la libertà e la dignità dell’uomo», egli insisterà sulla promozione di organismi sociali che proteggano gli individui senza interferire con la loro libertà, ritenuta il più sacro dei patrimoni umani.