Errico Malatesta
Parlare di Malatesta oggi suscita in alcuni persino irritazione. Perché parlare sempre dei «leader» e non dello stuolo di anonimi compagni? Perché, nell’era dei droni e dell’intelligenza artificiale, leggere ancora gli scritti di un autore nato nel regno borbonico? Non è ora di andare oltre Malatesta e svecchiare finalmente l’anarchismo? Un ovvio motivo per parlare di lui è che i più giovani possono non conoscerlo. A loro beneficio diciamo che la militanza di Malatesta ha abbracciato i primi sessant’anni di vita del movimento anarchico, dal congresso di St-Imier del 1872 ai prodromi della rivoluzione spagnola. Pur avendo vissuto la maggior parte della vita adulta all’estero, soprattutto a Londra, è stato protagonista dei momenti di più intenso scontro sociale in Italia, dai moti del pane del 1898 alla «settimana rossa» del 1914, al «biennio rosso» del 1919-20. È autore di alcuni dei più grandi «best-seller» della letteratura anarchica mondiale (Fra contadini, L’anarchia, Al caffè) e ha diretto alcuni fra i più importanti periodici anarchici in lingua italiana («L’Agitazione», «Volontà», «Umanità Nova», «Pensiero e Volontà»). Detto, questo, veniamo alle possibili lamentele di cui sopra. Ebbene, governo e proprietà privata dei mezzi di produzione – le massime incarnazioni dei due modi in cui si possono opprimere gli uomini, la forza brutale e il controllo dei mezzi di sussistenza – sono altrettanto vive nell’era dei droni quanto lo erano in quella dei Borboni. Da questo punto di vista, ahimè, non c’è niente di nuovo sotto il sole. E l’aspirazione ad andare oltre Malatesta è lodevole, come lo è quella ad andare oltre Darwin in biologia o Copernico in astronomia, ma bisogna essere in grado di farlo, altrimenti si rischia solo di scoprire l’acqua calda o, peggio, di uscire dal solco dell’anarchismo.
A mio avviso, parte della grandezza e dell’immutata rilevanza di Malatesta consiste proprio nell’aver tracciato quel solco, cioè nell’aver chiarito meglio di chiunque altro i tratti essenziali, cioè necessari e sufficienti, che definiscono l’anarchismo (al singolare). Nell’opuscolo L’anarchia Malatesta fornisce una definizione che è tanto concisa e apparentemente ovvia quanto è profonda:
«L’anarchia, al pari del socialismo, ha per base, per punto di partenza, per ambiente necessario l’eguaglianza di condizioni; ha per faro la solidarietà; e per metodo la libertà.»
L’eguaglianza è un punto di partenza, una pre-condizione. Poiché il monopolio dei mezzi di produzione è una forma di oppressione («chi è povero è schiavo»), eguaglianza di condizioni significa proprietà comune dei mezzi di produzione, cioè socialismo. La libertà, poi, è un metodo. Questo è probabilmente il concetto più fecondo di Malatesta:
«Un programma che tocca le basi della costituzione sociale non può far altro che indicare un metodo. Ed è il metodo quello che soprattutto differenzia i partiti e determina la loro importanza nella storia. A parte il metodo, tutti dicono di volere il bene degli uomini… Bisogna dunque soprattutto considerare l’anarchia come un metodo.»
Il metodo anarchico è il metodo della libertà: libera iniziativa di tutti e libero patto. Infine la solidarietà è un faro, è il valore che guida gli anarchici nella loro azione. L’anarchia che Malatesta descrive qui non è un modello statico di società, ma un processo sperimentalista e pluralista dall’esito aperto. Pluralismo significa che ogni individuo o gruppo ha diritto a concepire, propugnare e sperimentare un proprio modello di società che non contraddica i presupposti del processo stesso. Può e deve esservi quindi una pluralità di modelli, ma non si tratta di una pluralità di «anarchismi», come oggi è in voga affermare. Ciascuno di questi modelli ha diritto di cittadinanza nell’anarchismo ma nessuno di essi può essere inscritto nel programma anarchico, nella definizione di anarchismo. Ciò che caratterizza l’anarchismo è il metodo e soltanto il metodo, e in questo senso può esservi un solo anarchismo. Il semplice e fecondo presupposto metodologico che informa tutte le idee di Malatesta è il rifiuto di pensare le entità collettive – nazione, società, popolo, comunità – come totalità indivise. Le collettività sono aggregati di individui, e come tali la direzione che esse prendono è la risultante delle iniziative di tutti gli individui che le compongono. Questo presupposto metodologico, assieme al concetto dell’anarchismo come metodo, costituisce il fondamento teorico del gradualismo anarchico di Malatesta. La pratica del metodo della libertà è l’essenza tanto dell’azione anarchica nel presente quanto della società anarchica. La società anarchica non è altro che una società di anarchici, cioè di individui che praticano il metodo della libertà. Inoltre, l’idea che la società è la risultante delle iniziative dei suoi componenti implica che la società sia tanto più anarchica quanti più anarchici operano in essa. In ultima analisi, la distanza tra la società presente e l’«utopia» anarchica si dissolve nella graduale diffusione delle pratiche anarchiche. L’anarchia diventa una questione di grado di anarchismo dei membri della società.
Tuttavia, per quanto «interstiziali» e «rizomatiche» possano essere quelle pratiche nel presente, non si può pensare che l’anarchismo possa diffondersi «di soppiatto», quasi senza dare nell’occhio e senza incorrere nella reazione delle classi dominanti – legale o all’occorrenza extra-legale. A questa questione si possono dare risposte diverse, ma una risposta chiara va data. Una risposta nobilissima e chiarissima è quella tolstoiana della non-violenza. Un’altra è quella di Malatesta, che riteneva invece che alla violenza governativa si dovesse rispondere con la forza e che la rivolta sociale, intensificandosi, sarebbe sempre giunta inevitabilmente al bivio fra capitolazione e insurrezione. Chi trova sgradevole la prospettiva insurrezionale la bolla come «apocalittica», «catartica», «palingenetica», rispolverando così il vieto armamentario dell’interpretazione millenaristica dell’anarchismo, che da alcuni anni gli storici più avveduti stanno cercando di mettere in soffitta. In realtà, la concezione malatestiana dell’insurrezione era l’esatto contrario e nasceva proprio dalla consapevolezza che essa non avrebbe potuto essere un evento apocalittico. L’idea squisitamente malatestiana che il prossimo passo verso l’anarchia sarà una rivoluzione non anarchica è il nucleo del suo gradualismo anarchico e fu non solo enunciata fin dal 1899 ma messa in pratica nella «settimana rossa» del 1914, ben prima che l’etichetta del «gradualismo» fosse coniata. Come gli scritti Contro la monarchia e Verso l’anarchia apparvero contemporaneamente, così per Malatesta gradualismo e insurrezione sono due facce della stessa medaglia.