Emma Goldman
«Se non posso ballare, non è la mia rivoluzione»: è questa, di certo, la citazione più conosciuta di Emma Goldman. Per l’esattezza, come probabilmente non molte e molti sanno, Goldman non ha mai pronunciato o scritto queste esatte parole, tuttavia esse riassumono sagacemente un episodio significativo della sua vita. Secondo quanto racconta all’interno della propria autobiografia, una sera un compagno la rimprovera per la passione che nutre verso il ballo, una caratteristica da lui ritenuta frivola e inadatta a una militante anarchica. Goldman, furente di rabbia, gli risponde: «Voglio la libertà, il diritto all’espressione di sé stesse e sé stessi, il diritto di ognuna e ognuno alle cose belle e radiose». Dal canto suo, infatti, è fermamente convinta che la causa dell’anarchismo non esiga la rinuncia alla gioia, bensì esalti il desiderio di un’esistenza piena e appagante, libera da ogni forma di oppressione e dominio. Oltre a racchiudere il fine e il significato più profondo delle lotte libertarie di ieri e di oggi, questo aneddoto offre degli spunti interessanti per ripercorrere la vita e il pensiero di Emma Goldman e per interrogarsi su come quest’ultimo si possa applicare alle necessità del tempo presente. Nata nel 1869 a Kovno, nei territori dell’Impero russo, in una famiglia ebraica, all’età di sedici anni Goldman parte alla volta degli Stati Uniti. A New York inizia ad avvicinarsi agli ambienti anarchici e ben presto diventa una delle personalità più carismatiche del movimento. In quanto «donna più pericolosa d’America» – così come la definiscono le autorità –, nel tempo giunge a pagare il prezzo dei propri ideali con il carcere e l’esilio. Dopo essere stata deportata in Russia, ha modo di osservare da vicino le conseguenze della Rivoluzione di ottobre: nonostante l’entusiasmo iniziale, nel corso degli anni rimane profondamente delusa dalle pratiche di accentramento e repressione attuate dal governo bolscevico, tanto da schierarsi apertamente contro di esse. Questo perché Goldman ritiene che le istanze rivoluzionarie non possano prescindere dalla rivendicazione del diritto di autodeterminazione degli individui. Infatti, una delle convinzioni più importanti alla base delle sue idee politiche e delle sue scelte di vita è che la liberazione individuale rappresenta non solo un fine in sé, ma anche un passo cruciale verso un radicale mutamento della società. Più nello specifico, anticipando alcune delle riflessioni sulle quali si fonda il noto slogan femminista «il personale è politico», Emma Goldman afferma che la creazione di un nuovo ordine sociale deve partire dall’emancipazione delle singole persone. Sostiene, infatti, che la schiavitù causata dal Capitale, dallo Stato e dalla Chiesa si manifesta tanto negli aspetti materiali quanto in quelli più intimi della vita quotidiana, creando un fitto intreccio di subdole costrizioni.
Riconoscendo, dunque, la multiforme e complessa natura del dominio, Goldman si batte con lo stesso fervore su più fronti, adottando un approccio che oggi definiremmo intersezionale. All’interno dei saggi e degli articoli da lei scritti e nel corso dei suoi numerosi comizi, le parole diventano un’arma per contrastare la guerra, la leva militare e le istituzioni carcerarie e per rivendicare, al contempo, i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori e la libertà delle donne.
Tra tutte le sue battaglie, quest’ultima rappresenta di gran lunga il suo contributo più innovativo. A differenza del resto del movimento anarchico – convinto che le disuguaglianze tra i sessi si possano risolvere solamente con un cambiamento sistemico – e delle femministe della prima ondata – decise a conquistare il suffragio femminile –, Emma Goldman sostiene che la liberazione delle donne dipende anzitutto da un processo di rigenerazione interiore. Infatti, nessun miglioramento sul piano economico-sociale o politico può renderle completamente libere, se la loro intimità rimane intrappolata all’interno di barriere fatte di convenzioni e pregiudizi moralistici. In un sistema che subordina le donne agli uomini, l’amore viene soffocato e il sesso viene inteso solamente come parte del vincolo matrimoniale, all’interno del quale i suoi unici fini sono il compiacimento dei mariti e la procreazione di figlie e figli. Oltre a ciò, la capacità riproduttiva delle donne viene sfruttata, da un lato, per produrre nuove generazioni di forza-lavoro con lo scopo di arricchire le tasche del capitalismo e, dall’altro, per rimpolpare le file dei militari pronti a difendere la patria. Per questi motivi, Goldman ritiene fondamentale che ogni donna si riappropri della sua sessualità e dei suoi sentimenti, prendendo coscienza della propria persona e delle sue molteplici possibilità. Come? Pur riconoscendo la singolarità delle esperienze individuali, Emma Goldman invita le donne a trasformare le proprie relazioni in uno spazio di lotta, amando senza restrizioni, scegliendo autonomamente i propri partner e decidendo in libertà se e quando rimanere incinte. Inoltre, al fine di spezzare le catene che le legano ai ruoli di mogli e madri, Goldman ritiene che la contraccezione rappresenti uno strumento molto utile. È per questo che decide di attivarsi per promuovere in prima persona il controllo delle nascite, dapprima contrabbandando contraccettivi e successivamente dando vita a un vero e proprio movimento di massa, il Birth Control Movement.
Ad oggi sono trascorsi ottantaquattro anni dalla sua morte, ma la sua «furiosa passione di vivere» brilla ancora come un faro in un orizzonte plumbeo. Di fronte a problemi sistemici di portata globale, Emma Goldman ci ricorda l’importanza del contributo di ciascun individuo nel qui e ora. Non saranno, infatti, utopie astratte o rigidi programmi a determinare il cambiamento della società, ma intime rivoluzioni in ognuna e ognuno di noi, nel modo di pensare e pensarci, continuando a seguire con fiducia gli ideali di libertà.