Editoriale n. 11
Ribellarsi è giusto. Ribellarsi è oggi un dovere etico. Ciò che stanno facendo gli studenti serbi, le moltitudini turche e della Georgia, gli oppositori israeliani al governo Netanyahu, molti cittadini degli Stati Uniti, pochi ma valorosi abitanti di Gaza, le donne in Iran, così come tante altre persone in tanti altri luoghi del pianeta, nella nostra realtà europea, in contesti geografici, culturali, politici diversi: uomini e donne in rivolta ci interrogano sul nostro presente, ci inducono a pensare un futuro diverso. Da quando è uscito il primo numero di questa rivista (febbraio 2022) sono trascorsi pochi anni, ma gli accadimenti della storia sono stati tanti, veloci, sconvolgenti, producendo anche tra di noi nuovi interrogativi, nuove sfide, nuove possibilità. La strada che abbiamo scelto consapevolmente, di valorizzare il propositivo e il positivo che le esperienze libertarie di oggi ci evidenziano, lo sforzo di trovare e di interrogare tutte quelle realtà spontanee, antiautoritarie, mutualistiche che prefigurano un altro modo di relazionarci socialmente, resta il senso profondo e più importante della nostra rivista. Non dimentichiamo e non trascuriamo però l’importanza e la scelta strategica della rivolta permanente, individuale e collettiva, la rottura dell’immaginario dominante, la volontà di opporre non solo resilienza ma anche resistenza a una deriva autoritaria e pericolosamente totalitaria della po litica contemporanea. Ecco perché, seppure con spirito critico e autocritico, desideriamo considerarci parte attiva dentro ogni movimento che combatta contro ogni forma, visibile ma anche nuova e nascosta, di dominio. La bellezza e la carica creativa di movimenti spontanei di ribellione rappresentano per noi il valore aggiunto che illumina e alimenta la speranza. Ma tutto ciò non può illuderci e indurci a cercare scorciatoie che, pressoché sempre, si sono rivelate produttrici di nuovi poteri, nuove disuguaglianze, una volta consolidatesi in sistemi autoritari. Non vogliamo dimenticare il senso profondo della profezia di Étienne de La Boétie quando già nel 1500 ci ammoniva circa lo spettro reale della «servitù volontaria». Oggi, in un’epoca in cui vediamo una ricerca affannosa e irrazionale di nuovi capi, di nuovi uomini (o donne) soli al comando, di nuovi santoni e nuovi dei, noi dobbiamo opporre una visione grande, aperta, che ridia alle persone la potenza straordinaria del sogno, della possibilità concreta di vivere le nostre relazioni umane secondo pratiche di solidarietà, di rispetto, di autonomia, di libertà, di amore. Senza una «Visione» il necessario e indispensabile pragmatismo si traduce in miseria e pratica dell’ovvietà, produce e alimenta una politica sloganistica e meschina, tipica dei nostri squallidi governanti. Ma questa speranza non è illusione, non è fuga mistica dalla cruda realtà, ma consapevolezza che, come ripeteva spesso Colin Ward, ci rende consci che non può esistere una società totalmente totalitaria, così come non potrà esistere una società completamente libertaria, ma che permangono all’interno di queste forme di aggregazione umana, spazi, interstizi, momenti in cui sono presenti in maniera contrapposta e irriducibile la libertà e la tirannia. Ed è su questa consapevolezza che trova senso il nostro agire a favore della libertà che va ampliata, ma anche difesa nelle sue forme seppur incomplete, quando viene minacciata da un dominio incalzante. Abbiamo la fortuna, sì perché è stata la casualità che ci ha fatto nascere in questa parte di mondo, di abitare in un’area geografica come quella europea, e dobbiamo esserne consapevoli. Ma questo ha poco a che vedere, in prospettiva, con la nostra idea di abitare una terra senza diventarne i proprietari. Dobbiamo pensarci sempre come «stranieri residenti» e rilanciare un’idea, anche di Europa, diversa da quella ufficiale e istituzionale di una nuova superpotenza tra altre potenze. La via di salvezza è il federalismo integrale, quello che riporta la centralità di un processo decisionale ai livelli più bassi possibili, quello che pensa a una «scissione al posto della fusione» (per dirla ancora alla Colin Ward), una pluralità di società e non a una società unificata e di massa, un federalismo appunto integrale che comprenda una gestione comune dei beni comuni, forme spinte di mutualismo, relazioni di mutuo appoggio, valorizzazione delle diversità e molte altre cose ancora. Considerando tutto ciò, e molto altro, nel nostro piccolo noi continuiamo a proporre ai nostri lettori, semi continui di vita piena e libera, riflessioni e approfondimenti, conversazioni e articoli che stiano dentro questa strada, difficile, rischiosa, ma libera. Ci mancano contributi di pensiero e di riflessione su tanti temi e argomenti, e per questo cerchiamo sempre nuovi collaboratori e nuove collaboratrici, che mettano la propria sensibilità e la propria competenza al servizio di una comune causa. Siamo una rivista di tendenza ma vogliamo anche essere una fucina di confronto, senza sterili polemiche e avulsi da ogni dogmatismo.
In questo numero un’amica (Silvia Rizzo) e due amici (Pier Paolo Casarin e Tibor Lepel) ci raccontano tre diverse esperienze: una di accoglienza e di sostegno a persone “straniere” fatta da altre persone che sconfessano, con la loro quotidiana opera solidale, altri pensieri e comportamenti di violenta intolleranza; una efficace e difficile attività di studio e ricerca, ma anche di solidarietà attiva e non parolaia, in un luogo, il carcere minorile, di sofferenza e di violenza; infine un’attività ecologica in Germania, con protagonisti volontari e volontarie, che offre un esempio di pratica e di operosità autogestita e solidale. Il tema, a noi particolarmente caro, del carcere e delle sue possibili alternative, è l’oggetto della conversazione di questo numero con Stefano Anastasia garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà per la Regione Lazio e portavoce della Conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà. Poiché siamo consapevoli che quella che viene sociologicamente definita come «devianza sociale» in realtà è anche il prodotto di condizioni di disagio sociale, culturale ed economico, pubblichiamo un saggio sul tema della povertà oggi in Italia (Guido Candela) che, al di là dei freddi numeri, rappresenta un monito e uno stimolo per lottare per ridurre il più possibile e il più in fretta possibile le disuguaglianze che caratterizzano questo nostro mondo. Altri tre approfondimenti arricchiscono questo numero: due intorno ai temi della scienza, della medicina, delle prese di posizione contrastanti che anche nel nostro ambito libertario la drammatica e recente epidemia di Covid ha scatenato (Pamela Boldrin e Francesco Spagna). Infine un prezioso contributo di Giorgio Fontana che ci interroga sul significato più profondo di questi «semi» che vogliamo far germogliare liberamente. Riprendiamo poi con un articolo di Tomás Ibañez la discussione su ciò che noi chiamiamo «anarchismo propositivo e positivo» (discussione aperta da Francesco Codello nel numero 8 di questa rivista), proponendo uno sguardo in parte diverso ma sicuramente arricchente per questa riflessione così importante per noi. Le due «Radici» sono dedicate rispettivamente a Élisée Reclus (Francesco Berti) ecologo anarchico ante-litteram e caposcuola della geografia sociale, e a Federica Montseny (Valeria Giacomoni) discussa ma interessante figura di donna che è stata protagonista della rivoluzione spagnola nonché per un breve periodo ministro della Catalogna liberata. Infine un contributo di Francesco Spagna su Bob Dylan e uno di Mariangela Mombelli ed Enrico Ruggeri che recensiscono ancora film che riteniamo interessanti per i nostri lettori. Insomma ancora materiale da discutere, interrogare, rilanciare. In direzione sì «ostinata e contraria» ma anche, soprattutto, utile ad alimentare un sogno e una speranza di reale e profondo cambiamento nei nostri cuori e nelle nostre menti.