Conversazione con Giampietro (Nico) Berti
Giampietro (Nico) Berti (Bassano del Grappa, 1943) è considerato uno dei maggiori storici dell’anarchismo. Professore ordinario di Storia contemporanea in pensione, ha insegnato e fatto ricerca all’Università di Padova dal 1977 al 2012. I suoi campi di studio hanno spaziato dalla storia dell’anarchismo e del socialismo, al Risorgimento, alla Storia dell’Università di Padova e alla storia locale. Autore di decine di pubblicazioni, infaticabile organizzatore di convegni, incontri culturali e gruppi di lavoro, ha scritto: La dimensione libertaria di P.J. Proudhon (Città Nuova, Roma, 1982); Francesco Saverio Merlino. Dall’anarchismo socialista al socialismo liberale (1856-1930) (FrancoAngeli, Milano, 1993); Un’idea esagerata di libertà. Introduzione al pensiero anarchico (elèuthera, Milano, 1994); Il pensiero anarchico. Dal Settecento al Novecento (Manduria-Bari-Roma, 1998); Errico Malatesta e il movimento anarchico italiano e internazionale 1872-1932 (FrancoAngeli, Milano, 2003); Libertà senza Rivoluzione. L’anarchismo fra la sconfitta del comunismo e la vittoria del capitalismo (Lacaita, Manduria-Bari-Roma, 2012); Contro la storia. Cinquant’anni di anarchismo in Italia (1962-2012) (Biblion, Milano, 2016); Il principe e l’anarchia. Per una lettura anarchica di Machiavelli alla luce di una lettura machiavelliana dell’anarchismo (Rubbettino, Soveria Mannelli, 2023). Ha diretto il Dizionario biografico degli anarchici italiani (BFS, Pisa, 2003-2004) e curato gli scritti antologici di Bakunin, Kropotkin, Malatesta e Proudhon per le edizioni elèuthera (La libertà degli uguali; Scienza e anarchia; Il buon senso della rivoluzione; Critica della proprietà e dello Stato, varie edizioni). Attivista anarchico negli anni Sessanta e Settanta, ha collaborato alle riviste «A Rivista anarchica», «Volontà», «Libertaria» e alle edizioni Antistato ed elèuthera, partecipando alle attività del Centro Studi “Giuseppe Pinelli” di Milano e contribuendo ai Convegni internazionali su Bakunin, sui «Nuovi Padroni», «Venezia 1984». Questa intervista sviluppa, necessariamente, solo una parte dei temi affrontati nei suoi scritti.
Qual è stato il tuo incontro con l’anarchismo? Quando è avvenuto? Quali sono le figure che ti hanno colpito e influenzato di più e i temi che ti hanno maggiormente stimolato?
Mi sono avvicinato all’anarchismo molto presto, quando avevo diciassette anni. Prima di allora credo di essere stato una persona normalissima. Facevo tutto quello che facevano gli altri giovani, soltanto che avevo smesso di studiare presto e avevo iniziato a fare il garzone presso un odontotecnico. Una svolta nella mia vita si è verificata quando ho conosciuto gli anarchici. Mi ricordo che nell’estate del 1960 mi proclamavo già anarchico, anche se non sapevo bene che cosa significasse. In realtà in quel periodo ho iniziato a frequentare un gruppo di repubblicani a Vicenza ed è successo che un giorno, a una loro riunione, un vecchio repubblicano mi disse: «Guarda che tu non sei repubblicano, sei un anarchico». Mi incuriosii e decisi di informarmi su cosa fosse questa «anarchia». Ciò mi spinse ad avvicinarmi all’unico anarchico che operava a Bassano, Tullio Francescato (1888-1968), il quale, all’inizio del 1961, mi diede alcune copie di giornali anarchici, alcuni numeri di «Umanità Nova» e, forse, di «Volontà». Dopo averli letti, mi convinsi che ero anarchico.
Quando l’ho conosciuto, mi hanno persuaso sia le sue idee, sia la persona. Però era il 1961. A Bassano, come nel resto dell’Italia, non succedeva nulla, da un punto di vista anarchico. Così, tutto quell’anno, lo passai leggendo giornali anarchici. Mi sembra che Tullio, allora, mi avesse dato anche qualche libro e degli opuscoli di Pietro Gori, perché era un «goriano» molto convinto.
La vera svolta avvenne nel 1962, quando ci fu il rapimento del console Elias da parte di un gruppo di anarchici milanesi. Questo rapimento portò all’arresto dei loro artefici, tra cui Amedeo Bertolo, che contattai un po’ più tardi, all’inizio del 1963. Fu in quell’anno che quel gruppo di giovani anarchici milanesi incominciò anche a pubblicare la rivista «Materialismo e libertà», che ricevetti regolarmente.
Devo però precisare che non ho mai creduto, come non credo neppure ora, all’anarchia intesa come una realizzazione effettiva, concreta e completa di una società radicalmente altra. Non sono mai stato un sognatore. Non mi è mai piaciuta la dimensione utopica dell’anarchia. L’anarchia e le idee anarchiche mi piacevano e mi piacciono perché erano – e sono – una critica molto acuta della società dal punto di vista della libertà. Si tratta della critica sociale e politica più disincantata e soprattutto più disinteressata. L’unica critica veramente disinteressata, in realtà, mentre le altre – il comunismo, il socialismo – sono tutte interessate: certo, criticano il potere esistente, ma allo scopo di impossessarsene.
Un aspetto teorico importante, nell’ambito della tua militanza giovanile nel movimento anarchico, è costituito dall’elaborazione dei G.A.F., i Gruppi Anarchici Federati costituitisi all’inizio degli anni Settanta con un programma che ambiva a essere più moderno rispetto a quello di altre organizzazioni anarchiche, come la F.A.I. (Federazione Anarchica Italiana, fondata nel 1945), e i G.I.A. (Gruppi di Iniziativa Anarchica, sorti nel 1965). Vuoi dirci qualcosa in specie in merito al concetto di tecnoburocrazia, rispetto al quale il contributo dei G.A.F. appare tutt’oggi particolarmente innovativo?
Quando si sono creati i G.A.F. ho partecipato anch’io. Il motore centrale in tutto quel periodo era Amedeo Bertolo. Io ero membro del Gruppo di Vicenza aderente a questa «federazione». Ho poi fatto un po’ di militantismo, con un certo impegno, tra il 1970 ed il 1974, con il gruppo «Nestor Makhno», di cui sono stato uno dei fondatori, che si trovava a Mestre e Marghera.
Molto importante, effettivamente, è stato il Convegno sui «Nuovi padroni», svoltosi a Venezia nel 1978, che si è occupato della tecnoburocrazia. Negli anni Settanta cercammo di rinnovare l’anarchismo e credo che nessuno prima di noi avesse parlato di tecnoburocrazia, del tema delle tre classi, dei «nuovi padroni». L’idea centrale intorno a cui ruotava la tesi sulla tecnoburocrazia è la seguente: la dottrina classista tradizionale deve essere profondamente rivisitata, in quanto le classi in lotta per il potere non sono due, ma tre. Esiste infatti una terza classe, tecnoburocratica appunto, che è quella che poi di fatto conquista il ruolo dirigenziale nello Stato, che sale al potere e comanda non in virtù dei titoli di proprietà giuridico-privata da essa posseduta, ma sulla base di una specifica conoscenza posseduta, al contempo tecnica e ideologica. Le tesi sulla tecnoburocrazia ci permisero di sviluppare contemporaneamente una critica rivolta contro il capitalismo e contro chi lo combatteva da sinistra, cioè il marxismo. Si tratta di una teoria che oggi dovrebbe essere corretta rispetto ad alcune schematizzazioni che avevamo fatto allora, ma è una teoria – la più avanzata in quel periodo, secondo me – che ci permise di approfondire la critica del marxismo e del capitalismo. Potremmo dire che la fenomenologia di buona parte del capitalismo è certamente la tecnoburocrazia, però ciò non significa che questa forma ha sostituito in modo completo il capitalismo classico. Allora pensavamo che quella specifica forma di statalizzazione dei mezzi di produzione in cui si sviluppa la tecnoburocrazia si sarebbe imposta sul capitalismo classico, invece non è stato così. Il capitalismo classico non c’è più, ma non c’è più neanche la statalizzazione dei mezzi di produzione e quindi, l’individuazione di quella forma tecnoburocratica che noi denunciavamo più di quarant’anni fa, è rimasta una cosa importante, ma la tecnoburocrazia non ha sostituito, almeno secondo me, la logica del capitalismo, che è quella fondata classicamente sul mercato.
Dopo di allora, senza accorgercene, abbiamo abbandonato quel punto di vista, nel senso che quello che c’era da dire l’abbiamo detto e abbiamo aperto altre strade, come per esempio il tema dell’immaginario sociale, concetto che, in verità, non mi ha mai convinto. Basta ripercorrere la rivista «Volontà», diretta agli inizi del 1980 da Luciano Lanza, per accorgersi della svolta che c’è stata.
Uno dei concetti più importanti che hai elaborato è condensato nella massima, che suona come un aforisma: l’anarchismo: nella storia, ma contro la storia. Vuoi spiegare il significato di questa efficace formula?
L’anarchismo fa parte dello sviluppo storico, è un soggetto radicato nella storia, però il suo radicamento non può essere un fattore che asseconda il processo storico. Si tratta di un movimento che si pone sempre contro l’andamento del processo storico, nella misura in cui il processo storico è la manifestazione dei rapporti di dominazione esistenti nella società. Si pone contro in senso fortemente volontaristico, nell’intento di cambiare la direzione della storia.
Nel lungo periodo della tua attività culturale hai dedicato una particolare cura ed energia ai rapporti con un’area più ampia rispetto a quella, molto ristretta, dell’anarchismo, soprattutto militante. Un’area che potremmo qualificare come libertaria in senso lato e che – all’epoca – comprendeva specialmente socialisti, liberali di sinistra, radicali, repubblicani. Puoi spiegare il significato di questo approccio?
Per quanto concerne l’atteggiamento che io ho avuto negli anni Ottanta o Novanta con il mondo socialista, si può dire che fosse una posizione d’apertura e di scambio, anche perché scrivevo su «Mondoperaio», il mensile legato al Partito Socialista Italiano e ho avuto un rapporto di stima, amicizia e collaborazione con diversi intellettuali di area liberal-socialista, soprattutto con Luciano Pellicani e Domenico Settembrini, che avevano un profondo rispetto per l’anarchismo, pur criticandone il rivoluzionarismo. Ciò non significa che io sia diventato socialista. Però, nello stesso tempo, non ho mai avuto quell’atteggiamento di chiusura militante dovuta a una identità totalizzante, e ciò anche perché credo che non sia più possibile averne una di questo tipo. Il fatto che quell’area culturale e politica laica, liberale e socialista sia in gran parte scomparsa, è indice della grettezza e dell’impoverimento intellettuale dei tempi in cui viviamo.
A un certo punto, in numerosi scritti e interventi, dall’inizio degli anni Ottanta in poi, hai constatato la sconfitta storica del socialismo rivoluzionario, del marxismo come dell’anarchismo insurrezionale, la vittoria planetaria del sistema capitalista. Hai altresì sostenuto la necessità, per l’anarchismo, di avviare un profondo confronto/dialogo con l’ideologia liberale. Vuoi illustrare questo snodo decisivo nel tuo pensiero? Cosa doveva comportare, a tuo parere, per l’anarchismo? Si tratta – anche – di ridefinire la sua collocazione storico-politica, il tentativo di farlo uscire non solo da una posizione di estrema sinistra ma dalla stessa polarizzazione destra-sinistra?
Il confronto col pensiero liberale è un punto chiave per l’anarchismo, in quanto il liberalismo è quell’ideologia politica che ha posto la libertà al centro del suo sistema valoriale, sia pure in modo diverso rispetto all’anarchismo. Questo confronto è proficuo per l’anarchismo, perché permette all’anarchismo di misurarsi rispetto al proprio sistema di valori, a partire dal concetto di libertà. Ad esempio, da tale confronto emerge il seguente problema fondamentale. La critica radicale al principio d’autorità operata dall’anarchismo si fonda sulla consapevolezza teorica che non è possibile far avanzare la libertà se non insieme all’uguaglianza; nello stesso tempo, non è possibile far avanzare l’uguaglianza senza far avanzare la libertà. Ora, questa doppia istanza di libertà e uguaglianza hanno la loro completa realizzazione solo se si attacca l’idea del dominio, del potere, dell’autorità e quindi, l’anarchismo in questo senso è un’alternativa sia al pensiero socialista sia a quello liberale, poiché esso dimostra l’unilateralità di entrambe queste teorie rispetto al tentativo di sintesi che compie l’anarchismo nell’intrecciare l’istanza della libertà con quella dell’uguaglianza all’interno di un discorso di critica radicale del dominio e dell’autorità dello Stato.
Il confronto con altre teorie politiche, in primis il liberalismo, è fondamentale non tanto per dare una diversa collocazione all’anarchismo, quanto per farlo uscire dalle secche del ghetto culturale in cui da diversi decenni ristagna.
Qual è, a tuo parere, il rapporto dell’anarchismo di matrice socialista con le correnti, sviluppatesi soprattutto in area culturale anglosassone, che fanno riferimento all’anarco-capitalismo, al libertarismo «di destra»?
Ovviamente non c’è alcun rapporto politico tra queste due correnti, che anzi si criticano aspramente. Ciò non toglie il fatto che condividano alcuni problemi e che non concepiscano entrambe, in maniera molto forte, l’idea di libertà. Il fatto che due correnti anarchiche così diverse si siano sviluppate e radicate in contesti culturali e politici differenti come quello nord-americano ed europeo, in maniera del tutto autonoma, indipendente, mi pare confermi la tesi del valore universale dell’anarchismo, che è un’istanza che tende a presentarsi in forme diverse ma con problematiche e contenuti parzialmente analoghi in molteplici epoche storiche e presso culture diverse. Va rilevato che le due correnti di cui parliamo sviluppano diversamente l’idea di libertà perché nella corrente socialista c’è un richiamo forte all’uguaglianza, che è completamente assente nella corrente del libertarismo nord-americano o capitalismo anarchico, in cui la libertà diviene una sorta di assoluto.
Quali pensatori o correnti hanno a tuo parere contribuito di più al rinnovamento del pensiero anarchico e libertario?
Mi limito qui a citare il pensiero di Murray Bookchin, perché è colui che ha maggiormente contribuito al completamento dell’anarchismo contemporaneo con un punto di vista «naturalistico», facendolo poi incrociare con correnti contemporanee come l’ecologia. Però, nel caso di Bookchin, non stiamo parlando di ecologia naturalistica, ma di un’ecologia sociale, vale a dire un’ecologia che tiene conto della variante storica. Al contempo, l’ecologia sociale non è solo una proiezione socio-storica, non è solo un fatto culturale, ma è un fatto naturale. Se si parla di limiti e sviluppo della società, vuol dire che la società ha delle condizioni «naturali», materiali, che non si possono superare. L’ecologia rimanda a una scienza dell’equilibrio, del limite. A una scienza, dunque, non a una proiezione culturale. Si tratta di qualcosa che ha a che fare con le leggi dell’analisi oggettiva, della natura. Prima di Bookchin, l’ecologia non era un tema molto battuto e frequentato dagli anarchici, come altri temi che poi ritroviamo nei numeri di «Volontà» pubblicati negli anni Ottanta. Bookchin ha avuto il merito e la forza di porre in maniera originale il rapporto centrale, soprattutto nella nostra società, tra natura e cultura.
L’anarchismo ha sempre operato una critica radicale alla democrazia, non solo ritenendola l’espressione politica del sistema capitalista, ma anche – su un piano più specificamente politico – un sistema di dominio che vanifica il principio anarchico del libero accordo. Cosa pensi di questa posizione, di cui ti sei occupato criticamente in particolare nella tua monografia su Merlino, Malatesta e nello studio su Libertà senza rivoluzione*, anche alla luce della crisi che sembra attraversare la democrazia liberale negli ultimi decenni?*
I limiti oggettivi della critica anarchica alla democrazia, cioè il tentativo di un superamento, nelle decisioni politiche, del principio della maggioranza che salvaguardi in maniera assoluta la volontà della minoranza, sono stati chiaramente evidenziati da Francesco Saverio Merlino nel dibattito che l’ha visto contrapporsi a Errico Malatesta. Sul piano teorico non c’è molto da aggiungere a questa critica. Alcuni aspetti culturali della critica anarchica alla democrazia, peraltro condivisi con pensatori appartenenti ad altri filoni di pensiero, come il liberalismo, risultano tuttavia molto attuali. Mi riferisco, per esempio, al rapporto tra verità e democrazia. La democrazia è un sistema per cui ha ragione la maggioranza sulla base di un criterio puramente numerico. Ciò non significa che la posizione della maggioranza sia sempre vera e condivisibile. Il problema è come far valere la «verità», quando essa si contrappone all’espressione della maggioranza popolare, perché non c’è una soluzione politica a questo dualismo, in termini anarchici. Altro aspetto importante e attuale della critica anarchica alla democrazia è che tale critica svela la logica di potere che sta dietro il discorso democratico. La democrazia è un sistema di potere, di dominio, ma tale aspetto viene occultato dalla democrazia stessa, che si presenta invece solo nella sua dimensione di libertà, come un sistema fondato sulla libertà. La democrazia perciò crea una serie di aspettative che nel tempo non possono che risultare parzialmente insoddisfatte, in quanto fondate su una parziale mistificazione.
Perché la difesa dei valori occidentali è imprescindibile per il pensiero libertario contemporaneo, alla luce della globalizzazione?
L’occidente va difeso per il processo di secolarizzazione che in esso si è verificato nel corso degli ultimi secoli, con tutto ciò che questo ha comportato in termini di libertà, uguaglianza, democrazia etc. Non è vero che tutte le culture sono uguali e soprattutto non è vero che sono tutte ugualmente portatrici di valori simili, interscambiabili o condivisibili. Non esiste nulla di simile, in termini di valorizzazione della libertà, al pensiero occidentale. Non è che il tema della libertà, e specificamente della libertà individuale, non si ritrovi in altre culture, né bisogna negare l’importanza di ricercarlo al di fuori della cultura occidentale, ma non si può fingere che in altre culture tale tema abbia la centralità costitutiva che ha nella tradizione di pensiero occidentale.
Nel tuo ultimo libro su Machiavelli e l’anarchismo, sostieni che il potere è un elemento ineliminabile della natura umana; allo stesso tempo, però, l’anarchia intesa come metodo etico contrapposto alla politica (o al politico), è una «gramigna» – per usare un’espressione di Amedeo Bertolo - anch’essa insopprimibile. In altri termini, se l’anarchismo come movimento sociale e politico è storicamente determinato, l’anarchia come metodo trascende il contingente e si pone come principio di fondo dell’agire umano. In questo senso, potremmo affermare che l’anarchismo può svolgere ancora un ruolo importante nella società attuale, nel presente e futuro storico?
La risposta non può che essere affermativa. Da un certo punto di vista, la giustificazione dell’anarchismo viene dal potere stesso: l’esistenza del potere «chiama» la critica anarchica del potere, la legittima e, paradossalmente, la giustifica. D’altro canto, l’anarchismo non deve avere la tentazione, in virtù di questa giustificazione, di concepirsi in maniera subordinata. La critica anarchica deve partire dalla constatazione, banale ma non per questo meno vera, che i rapporti di forza nella società sono ineliminabili. Chi è a favore del potere tende a concepirli e a tenerli chiusi, in termini appunto di dominio; chi è a favore della libertà deve tendere a tenerli aperti e a concepirli appunto in termini di libertà. Di qui lo sforzo, per un anarchismo che voglia uscire da una dimensione utopistica e ghettizzante, di pensare alle potenzialità propositive della sua critica. Si tratta di sviluppare la parte propositiva dell’anarchismo: avere il coraggio di pensare i rapporti di forza nella società in termini di relazioni fondate sulla libertà.