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Canaglie senza ideologia: l'anima ribelle degli chansonnier

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È stato scritto che la canzone è radicalmente cambiata con l’avvento della sua dimensione d’autore che l’ha trasformata in qualcosa di unico e personale, che ne ha acceso lo spirito civile e libertario. In modo particolare nella prima stagione francese e in seguito anche in quella italiana, non a caso è quasi impossibile separare il repertorio, l’esperienza e il canto dal sentimento politico o sociale perché questo miscuglio di passioni vitali i francesi l’hanno adottato come una sorta di resistenza anarchica, segnata fra Giovanna D’Arco e la Paris Canaille. Infatti i primi riferimenti di questa schiera di cantautori vanno molto indietro nel tempo, ad Aristide Bruant, il padre degli chansonnier, perché già nelle sue canzoni si affacciavano maudits animati da uno spirito tragico, melanconico e barricadero. Ma poi anche tutta la schiera di «cantautori», Brel, Ferrè, Trenet, Vian, Brassens, Gainsbourg la stessa Piaf e i suoi fedeli Bécaud e Aznavour, ha ereditato quei sentimenti rileggendoli in modo personale e profondamente diverso uno dall’altro pur condividendo lo stesso spirito anticonformista. Operaio alla Renault di Parigi, Georges Brassens è stato anche uno dei più chiaramente ispirati da sogni libertari, arrivando a una narrazione ironica e tagliente dopo una forte passione per i testi fondamentali della letteratura francese che lo ha portato alla scrittura di brani ripresi da poeti celebri come Francois Villon (Ballade des dames du temps jadis), Victor Hugo (Gastibelza), Paul Fort (Le petit cheval). È nel 1946 che cominciò la sua collaborazione a «Le Libertaire», rivista anarchica che lo mantenne legato a questi ideali per tutta la vita e che Brassens esprimerà con un sentimento di protesta attraverso l’irriverenza delle canzoni, la volontà di lottare contro l’ipocrisia della società e le convenzioni sociali. Nei testi la sua posizione politica è stata molto decisa quando prendeva posizione in favore degli emarginati, degli ultimi e contro ogni tipo d’autorità costituita, in particolare contro le figure del giudice e del poliziotto intese come immagini simboliche della giustizia ingiusta, basta dare un’occhiata al testo di Le gorille (Il gorilla) ripreso in italiano dal suo ammiratore Fabrizio De Andrè. Poi venne la stagione nel cabaret nei locali di Montmartre, in particolare il Chez Patachou anche se all’inizio solo come autore e non come interprete. Il 1953 fu anche l’anno di pubblicazione del romanzo La tour des miracles, poi venne l’accusa di disfattismo e «revisionismo storico» per Les deux oncles, la canzone antimilitarista segnata da un tono anarco-individualista che ruotava intorno alla vicenda metaforica di due zii immaginari.

C’était l’oncle Martin, c’était l’oncle Gaston
L’un aimait les Tommies, l’autre aimait les Teutons
Chacun, pour ses amis, tous les deux ils sont morts
Moi, qui n’aimais personne, eh bien! je vis encor

Maintenant, chers tontons, que les temps ont coulé
Que vos veuves de guerre ont enfin convolé
Que l’on a requinqué, dans le ciel de Verdun
Les étoiles ternies du maréchal Pétain

C’era lo zio Martino e c’era lo zio Gastone
a uno piacevano i Tommi’s, all’altro piacevano i Crucchi
Ognuno per i suoi amici, sono morti tutt’e due.
Io, invece, che non prediligevo nessuno, sono ancora vivo.

Ora, cari zietti, che il tempo è trascorso,
che le vostre vedove di guerra finalmente si sono rimaritate,
che sono state rimesse a nuovo nel cielo di Verdun
le stelle appannate del maresciallo Pètain
(traduzione di Nanni Svampa e Mario Mascioli)

«Per la verità non è che abbia eletto Brassens a mio mentore per assoluta affinità ideologica, ma soprattutto per l’uso che fa della canzone come veicolo di idee e di storie esemplari, veicoli a loro volta di idee e di atteggiamenti controcorrente. Può valere come esempio di questo atteggiamento il trattamento che ho riservato ad una sua canzone, Les deux oncles, che ho tradotto. La canzone originale, portando all’estremo la condanna di ogni forma di guerra, mette allo stesso livello, su un piano di malinconico rimpianto, due ex- nemici, uno che ha fatto il maquis ed uno che ha collaborato coi tedeschi» (dal sito del Movimento Nonviolento). Così commentava Fausto Amodei, esponente di primo piano del gruppo dei «Cantacronache», il laboratorio della canzone civile alla fine degli anni Cinquanta.
Boris Vian rappresenta un’altra originale anomalia all’interno del gruppo degli chansonnier in quanto artista scomodo in particolare per i letterati dell’epoca, che non ne comprendevano l’eclettismo non solo poetico, in quanto ingegnere, autore, trombettista, cantante, discografico, scopritore di talenti. I cantanti ne addolcivano i testi come fece Marcel Mouloudji con Le déserteur (1954) con musica di Harold Berg che venne composta tre mesi prima della caduta di Dien Bien Phu e della fuga dei francesi dall’Indocina e otto mesi prima dell’insurrezione di Algeri. Le sue canzoni si alimentavano con un mix che va dal jazz al tango fino alle folk-ballad unite al linguaggio surreale e provocatorio di invenzioni linguistiche con cui spiazza l’uditorio, come per On n’est pas là pour se faire engueuler (Non siamo qui per farci sgridare), L’âme slave (L’anima slava), scioglilingua riferito alle sue supposte origini russe, o il sarcastico swingjazz di J’suis snob (Sono snob) dedicato ai giovani annoiati della buona borghesia parigina. Anche le poche canzoni d’amore, non riconducibili al genere melodico, proponevano testi che descrivevano situazioni spiazzanti, come il duetto sado-masorock di Fais-moi mal Johnny (Fammi male John) o Quand j’aurais du vent dans mon crâne (Quando avrò del vento nel cranio) che Serge Gainsbourg, il suo più grande erede, musicherà nel 1964 e Serge Reggiani inciderà qualche anno dopo facendola precedere da alcuni celebri e provocatori versi di Jacques Prévert tratti dal suo Pater Noster: «Padre nostro che sei nei cieli, / restaci, / e noi resteremo sulla terra / che qualche volta è più bella». Non a caso Vian è sempre stato molto amato dal movimento anarchico per la sua poetica libertaria e la smisurata voglia di sperimentazione nelle arti in genere, anche se un solo lavoro è riconducibile all’ideologia anarchica: la Bande à Bonnot, su commissione di Henri-François Rey che stava preparando una commedia musicale sulla vita del bandito Jules Bonnot, vissuto al tempo della Belle Époque che poi portò all’incisione di L’enfance de Bonnot (L’infanzia di Bonnot) sulla vita dell’anarchico Jules, prima operaio e poi bandito. Curiosamente saranno invece i folk-singer americani Peter, Paul and Mary negli anni Sessanta a lanciare nel mondo Le déserteur, facendone una delle bandiere del movimento pacifista contro la guerra nel Vietnam e in Italia da una travolgente versione di Ivano Fossati.
Il monegasco Leo Ferrè è stato forse il più apertamente ribelle degli chansonnier a partire dalla celebre Paris Canaille (1952) e poi Graine d’ananar (1954). Come già Charles Trenet e Vian, aveva cominciato nel 1939 mettendo in musica un poema di Paul Verlaine Le piano qui baise une main frêle (Il piano baciato da una mano fragile). Dopo il trasferimento a Parigi e la frequentazione dei cabaret di Saint-Germain come cantante iniziò a offrire spazio a idee anarchiche nei testi poi strinse amicizia con alcuni esiliati spagnoli a cui dedicò canzoni come Flamenco de Paris, Le Bateau Espagnol e Franco la Muerte. Quindi espresse la sua critica profonda contro la religione con Monsieur tout blanc contro Pio XII, il potere istituzionale con Mon général su De Gaulle e anni dopo Allende contro Pinochet. In seguito firmò una trilogia contro la pena di morte e alcune parole del vangelo: La mort de loups, Madame la Misère, e Ni Dieu ni maitre e i testi dei «poeti maledetti» dell’Ottocento francese. Quindi nel 1953 portò in scena il suo oratorio lirico su testo di Apollinaire La chanson du mal-aimé e nel 1956 pubblicò la raccolta di versi Poète, vos papiers! e scrisse il romanzo, ispirato alla sua infanzia oppressa in collegio, Benoit Misère. Negli anni successivi si avvicinerà al movimento beatnik e al Sessantotto che sostenne con una foto con la scritta autografa: «Viva l’Anarchia con la A maiuscola come Amore!».
Si può essere ribelli e corrosivi non solo con le idee ma anche con le parole, così Jacques Brel maestro della parola cantata, con il suo modo di recitare la canzone, senza mai smarrire le cadenze della musica, è stato l’anticipatore di un teatro-canzone spesso aggressivo e violento perché amava dire che «Una canzone non è fatta solo per essere cantata, ma per essere mimata, raccontata, e se tutto il mio corpo non aiuta il mio testo, non è più una canzone». Celebri le sue performance infiammate da uno stile teatrale capace di alternare momenti di grande tensione drammatica ad altri di viva commozione con cui ha innalzato la canzone ai massimi vertici della dimensione musicale e poetica. Lo stile delle sue esibizioni influenzò soprattutto la prima generazione dei cantautori italiani – quella dei Paoli, Tenco, Gaber, Guccini - che infatti spesso riproposero, oltre alla musica, i testi dell’autore belga in forma parafrasata. Il suo modo di stare in scena nelle prime esibizioni nei cabaret di Bruxelles già si proponeva con uno stile che metteva in evidenza il modo appassionato di cantare e accentuare la gestualità dell’interpretazione dove la voce, ora saltellante, ora aggressiva, ora sinuosa, rappresentava solo una parte della performance che si integrava con l’espressione del volto e della mimica. Stile che si alimentava con testi talvolta violenti, duri, sarcastici in qualche caso persino intollerabili per una parte del pubblico, come nella celebre invettiva contro i fiamminghi presente in La, la, la del 1967 che conteneva il verso «Vive les Belgiens, merde pour les flamingants» (Viva i belgi, merda per i flamingants). Dopo il successo conquistato anche con composizioni leggere, come Les bonbons, Le Lion, Comment tuer l’amant de sa femme, pose l’attenzione su diversi argomenti consacrando la canzone come messaggio in grado di raggiungere traguardi di alto livello culturale, sociale e politico con titoli destinati a grande successo come Les Singes, Les Bourgeois, poi rilanciata a suo modo da Gaber, Jaurès, vere rappresentazioni «realistiche» della società, persino provocatorie negli spietati ritratti di «rifiuti della società» come alcolisti, vagabondi e prostitute, proposti in brani come Jef e Jacky del 1965 o nella disperata invocazione di Ne me quitte pas rilanciata con il titolo italiano di Non andare via da Gino Paoli, Patty Pravo, Dalida, Franco Califano. Serge Gainsbourg è stato il più moderno e innovativo degli chansonnier francesi perché le sue composizioni non erano legate solo alla forma canzone tradizionale ma spesso contaminate dalla cultura statunitense del jazz, rock, blues. Ispirato fortemente da Vian, i suoi testi parlavano di temi aspri in un repertorio provocatorio che molto spesso aveva al centro l’amore per le donne e argomenti fuori dell’ordinario come l’adulterio, l’alcol, la povertà. Come gran parte degli altri chansonnier era centrale il suo riferimento alla poesia francese come mostrato in Chanson de Prévert, dedicata al grande poeta. Ma in ogni momento della sua vita artistica per rispondere all’urgenza animata dal suo ribellismo e in nome di una libertà espressiva non smise mai di sperimentare in modo provocatorio e fuori dei margini della canzone, come in Gainsbourg Percussion del 1964 con cui rilesse la sua idea di musica afro, reinterpretando anche Kiyakiya (che diventò Joanna), Akiwowo (New York - USA) e Gin-golo-ba (Marabout). Gli anni successivi sono stati segnati dal suo atteggiamento fortemente edonista e dal rapporto con Brigitte Bardot e Jane Birkin che ebbe il suo momento più celebre con la scandalosa Je t’aime… moi non plus in cui metteva in scena un orgasmo come estremo omaggio all’amore più liberatorio. Anche in questo modo si confermava artista capace di provocazioni che aprivano nuove strade per una canzone politica nel senso più aperto del termine. All’interno di questo schieramento di artisti maschi, esclusa la madrina Piaf, si è mossa anche la musa dell’esistenzialismo Juliette Gréco, cantante e attrice francese che già a sedici anni era coinvolta nella Resistenza, un’esperienza che segnerà indelebilmente il suo futuro impegno politico anche nella canzone. Numerose le sue canzoni incentrate su versi scritti da autori e poeti, come Raymond Queneau (Si tu t’imagines), Jean-Paul Sartre – amico personale della cantante – (La Rue des Blancs-Manteaux), Jacques Prévert (Les feuilles mortes). Gli altri componenti dell’universo chansonnier, i Bécaud, Aznavour, la stessa Edith Piaf, pur essendo liberi pensatori non sono mai stati interpreti politici in senso stretto, come invece i citati Brassens, Vian e Ferrè, e persino Yves Montand chansonnier/crooner che invece era vicino al movimento comunista francese con un repertorio di folk politico che ha fatto parte del suo catalogo canoro, in cui figurava Bella ciao. Profili di anime ribelli a cui la Francia si è spesso aggrappata per trovare cantori che fossero in grado di recuperare i sentimenti libertari e pacifisti su cui aveva costruito la storia della sua democrazia rivoluzionaria.