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Antropologia anarchica

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Nel cercare di delineare questo approfondimento sull’incontro, o sull’intreccio, tra antropologia culturale e «pensiero anarchico», credo sia importante muoversi su due versanti. Da una parte i modi attraverso i quali l’antropologia culturale si rifonda, in epoca postcoloniale. Dall’altra una questione fondamentale e di amplissima portata, sui valori di riferimento e sugli ideali che antropologia culturale e anarchismo si sono trovati a condividere sul tema della «natura umana».
L’antropologia culturale «ricomincia», in epoca postcoloniale, sviluppando un nuovo paradigma, in un arco temporale che copre la seconda metà del Novecento. Possiamo individuare uno dei primi segnali di crisi del vecchio paradigma coloniale nel celebre quanto anomalo libro di Claude Lévi-Strauss, Tristi tropici. Nato come riflessione a margine delle ricerche compiute in Brasile negli anni Trenta, Tristes tropiques viene pubblicato nel 1955. Nella recensione uscita l’anno successivo, Georges Bataille scriveva che la novità del libro consisteva nel fatto che esso «si oppone a rimaneggiamenti» (di idee già note) e «risponde al bisogno di valori più ampi, più poetici» (Bataille 1956).
Il libro mescola i generi: saggio di antropologia, meditazione filosofica, racconto di viaggio… si candida per il premio Goncourt, che gli verrebbe assegnato, ma ciò non è possibile, non essendo un romanzo. Viene tradotto in inglese nel 1961, con un titolo cambiato ma significativo: The World on the Wane, «il mondo che sta sparendo». Qual è il mondo che scompare? Quello dei «popoli primitivi», certo (i Nambikwara che Lévi Strauss incontra erano già allora minacciati e in fuga). In via di sparizione era anche il vecchio ordine mondiale del colonialismo. Il «mondo che non esiste più» sarebbe stato, a breve, quello contestato dalla controcultura degli anni Sessanta.
In Tristi tropici si trova un po’ di tutto, ma ci sono anche passaggi che potrebbero stare in un volantino di protesta:
“Oggi che le isole polinesiane, soffocate dal cemento armato, sono trasformate in portaerei pesantemente ancorate al fondo dei Mari del Sud, che l’intera Asia prende l’aspetto di una zona malaticcia e le bidonvilles erodono l’Africa, che l’aviazione commerciale e militare viola l’intatta foresta americana o melanesiana, prima ancora di poterne distruggere la verginità, come potrà la pretesa evasione dei viaggi riuscire ad altro che a manifestarci le forme più infelici della nostra esistenza storica? Questa grande civiltà occidentale, creatrice delle meraviglie di cui godiamo, non è certo riuscita a produrle senza contropartita. Come la sua opera più famosa, pilastro sopra il quale si elevano architetture d’una complessità sconosciuta, l’ordine e l’armonia dell’Occidente esigono l’eliminazione di una massa enorme di sottoprodotti malefici di cui la terra è oggi infetta. Ciò che per prima cosa ci mostrate, o viaggi, è la nostra sozzura gettata sul volto dell’umanità” (Lévi-Strauss 1982: 36).
La critica al colonialismo e alle distruzioni da esso operate è serrata. Si affaccia però anche una sensibilità nuova, planetaria, ecologica. La «sozzura gettata sul volto dell’umanità» la possiamo intendere come scorie e rifiuti tossici spediti nei territori delle ex colonie (un problema sempre attuale). Il processo distruttivo che continua nelle sue forme neocoloniali, determinando l’invivibilità di intere aree del Pianeta e concorrendo a quella crisi umanitaria (intrecciata alla crisi ambientale) che oggi è sotto gli occhi di tutti. Dunque Tristi tropici è anche un libro di premonizioni, che annuncia, anticipa quei processi per cui «il mondo che scompare» rischia di non essere solo quello dei popoli cosiddetti primitivi.
Lévi-Strauss esprime dunque un pensiero radicale, che non si chiude nei comparti accademici e non farà «scuola». Pochi, tra gli antropologi, ne rivendicheranno la diretta filiazione. Uno diquesti sarà, in Francia, Pierre Clastres. Clastres farà ricerca in Paraguay e pubblicherà nel 1974 un libro, La Société contre l’État. Recherches d’anthropologie politique (Clastres 2022), che inaugurerà un dibattito estremamente importante nell’ambito dell’antropologia politica: il potere coercitivo non è universale. Tra i nativi americani incontrati da Clastres i capi esistono, ma svolgono una funzione di mediatori di conflitti, usano il linguaggio, l’autorevolezza per dare coesione al gruppo. Non danno ordini, non impongono nulla, non alzano la voce. Ciò che Clastres riscontra in Sud America, lo ritroviamo tra i nativi del Nord America, dove i «capi» si fanno scrupolo persinoad esercitare influenzamento, considerato come una maleducazione: dire a qualcuno quello che deve o dovrebbe fare…
L’antropologia anarchica di Pierre Clastres, negli anni Settanta, sembra un exploit isolato e questo antropologo, purtroppo, muore prematuramente. In quegli anni sta però strutturandosi una nuova antropologia americana, formatasi nei campus universitari del decennio precedente, attraversati da fermenti controculturali. Clifford Geertz è uno dei protagonisti di questa nuova generazione. La sua antropologia interpretativa (Geertz 1973) offre una nuova prospettiva metodologica, che si ispira al circolo ermeneutico in filosofia. L’interpretazione, concepita in questo modo – filosofico e antropologico – non può che essere libera e virtualmente infinita. Così come è bene che il circolo ermeneutico resti sempre aperto: ogni volta che si cerca di chiuderlo si cade in un assolutismo, in una involuzione autoritaria. Ogni totalitarismo (e anche ogni «populismo») si caratterizza per sopprimere la libera interpretazione. L’antropologia interpretativa offre dunque un contributo molto importante, su scala globale, alla critica del principio di autorità.
Parallelamente, un’altra importante risorsa arrivò in uno dei filoni principali dell’antropologia culturale in Europa. In un contributo che ebbe grande influenza Ethnic groups and boundaries. The social organization of culture difference (1969) (Barth 1994), Fredrick Barth focalizzò lo sguardo antropologico sul confine etnico, mostrandone la permeabilità e per molti aspetti l’inconsistenza. Veniva messo in questione un altro «mattone» del vecchio paradigma antropologico, l’etnia. Assieme a esso, risultavano artificiosi tutti i processi di «etnicizzazione», che dividevano i popoli su linee di confine che in epoca coloniale erano state rimarcate. I processi che mettevano in ombra i mescolamenti e la libertà di movimento degli esseri umani al di là delle barriere etniche o linguistiche. Cosa impediva di trasportare la teoria di Barth dal confine etnico al confine nazionale? Arrivava dunque dall’antropologia un consistente rinforzo agli ideali dei «senza patria» e di tutti coloro che, per le più diverse ragioni, cercavano di far valere la propria libertà di movimento contro l’oppressione dei confini degli stati nazione, segnati da violenze e da guerre.
Sul versante ideologico, l’antropologia postcoloniale aveva subìto la forte influenza del marxismo. Come ha recentemente mostrato Tim Ingold (Ingold 2020), fu questa una parentesi piuttosto breve. Tra il pensiero di Marx e l’antropologia vi erano incroci fecondi, e durante gli anni della decolonizzazione molti antropologi si erano schierati, come militanti, a fianco dei movimenti di indipendenza dalle colonie, con posizioni marxiste e rivoluzionarie. Vi erano, tuttavia, nelle teorie marxiste, alcuni assunti che non potevano che cozzare con la ricerca antropologica: Clastres fu uno dei primi a osservare l’inapplicabilità, per l’antropologia, del rigido schema teorico «struttura/sovrastruttura». Da una parte, gli antropologi continuavano a riscontrare aspetti «sovrastrutturali» che apparivano, presso i popoli che visitavano durante le ricerche, come «strutturali». Dall’altra, era piuttosto evidente che il rapporto tra «strutture economiche» e «sovrastrutture culturali» rifletteva di per sé un implicito del mondo occidentale moderno: presto o tardi l’ebbe vinta la prospettiva metodologica che Levi-Strauss aveva messo in rilievo in Tristi tropici: emanciparsi dai propri schemi per poter davvero comprendere le diversità umane, «spogliare i nostri usi» di quella evidenza che gli viene attribuita (Lévi-Strauss 1982: 377), sollevare il velo dei nostri impliciti culturali. Concetto che era molto chiaro anche al nostro Ernesto De Martino, quando teorizzava l’etnocentrismo critico (la capacità di riconoscere i limiti della propria visione del mondo). Il marxismo (come la psicoanalisi) rappresentava una miniera di sollecitazioni, ma risultava inapplicabile ogni volta che si imponeva come schema totalizzante e universalistico. L’antropologia economica e l’antropologia politica non potevano appiattirsi su uno schema ideologicamente preconfezionato. Le ricerche di Clastres avevano dimostrato, sul piano politico, che il potere coercitivo non è universale. Sul piano economico, l’antropologo americano Marshall Sahlins con il suo Stone age economics, del 1972 (Sahlins 2020), aveva messo in risalto tali e tante varianti degli schemi consueti del mondo occidentale o dei suoi razionali «costi/benefici», per le quali l’intero edificio di una antropologia economica di impostazione marxista non poteva reggere.
Si rendeva dunque necessaria, per l’antropologia, una prospettiva ampia, completamente disancorata. L’antropologia culturale si caratterizzava come un movimento di libero pensiero.
Erano ancora gli anni Settanta quando si profilò, in ambito scientifico, una visione particolarmente riduttiva e totalizzante, quella della sociobiologia. Una divulgazione particolarmente pervasiva, convincente quanto brutale, veicolava l’idea di una «natura umana fondamentalmente aggressiva», che andava tenuta sotto controllo. La sociobiologia (che affermava di poter «spiegare tutto») e le retoriche del controllo sociale costruirono una potente saldatura. L’antropologia culturale aveva pronto, in risposta, un «pacchetto» di ricerche molto accurate, che mettevano in questione l’assunto di base sul quale la sociobiologia costruiva la sua pretesa universalizzante. Una generazione di antropologi e antropologhe, negli anni Sessanta, aveva dato nuovo slancio alla ricerca presso i cosiddetti primitivi e aveva riportato, dai campi di ricerca, visioni radicalmente diverse da quelle precedentemente raccolte. Questo nuovo volume di ricerche si era focalizzato su quei popoli del Pianeta che – nelle regioni estreme, in deserti e foreste, nella tundra o sui ghiacci – portavano avanti uno stile di vita basato sulla caccia e la raccolta. Queste ricerche furono raccolte nel celebre convegno Man the Hunter del 1968. Si trattava di etnografie molto accurate, sul piano scientifico, da parte di ricercatrici e ricercatori che avevano realmente provato a condividere la vita di queste popolazioni: senza pregiudizi e fuori dalle strutture e dagli schemi coloniali, con un notevole entusiasmo e una spinta ideale a cogliere il caleidoscopio dell’umanità in queste estreme sfaccettature. L’idea antropologica generale di costruire un mosaico di umanità il più possibile completo e inclusivo, si arricchiva di elementi nuovi e caricati di una nuova autorevolezza scientifica. Ragionando su questi nuovi elementi Sahlins mise insieme il suo Stone age economics. Facendo riferimento a queste ricerche – che proseguirono nel decennio successivo – Ashley Montagu (antropologo inglese, allievo di Malinowski) mise insieme, nel 1978, una raccolta di saggi etnografici intitolata Learning non aggression (Montagu 1987). Questa raccolta rappresentò la più efficace e fondata critica alle retoriche della sociobiologia. Dalle foreste equatoriali dell’Africa a quelle del Sudest asiatico, dalle isole della Polinesia ai ghiacci dell’Artico centrale canadese, sicomponevano tessere di un mosaico di umanità che, attraverso un’educazione a tutti i livelli, allontanava l’aggressività da se stessa, coltivando temperamenti miti, timidi, orientati alla cura, alla solidarietà e alla cooperazione all’interno del gruppo domestico o della comunità. Un disegno di umanità che traccia una sorta di «cordone sanitario» attorno al gruppo per impedire che scariche di aggressività, di rabbia o di violenza vi possano penetrare, facendo filtrare un potenziale distruttivo reputato, sul piano dei valori, disumano. Un «patto sociale» molto diverso da quello teorizzato da secoli di filosofia occidentale. Per molti aspettiun patto sociale al femminile, che si opera per tenere fuori la violenza dalla comunità, sul piano delle pratiche e dei valori, attraverso l’educazione, nel cerchio protettivo della cura e dell’accudimento. Vengono in mente, al di là dei casi etnografici del libro curato da Montagu, le donne irochesi durante gli scontri con la polizia canadese, nel 1995, che sventolavano e fumigavano i loro militanti maschi prima che rientrassero nelle loro case. Per purificarli dalla rabbia e dalla violenza, che, portate «dentro casa» avrebbero potuto riverberare altra rabbia e altra violenza. L’idea dell’aggressività come un contagio, contrario all’educazione, ben diversa dall’idea di aggressività come carattere fondamentale, «profondo», irredimibile, che può essere soltanto represso e controllato da istituzioni (maschili), spesso dai cosiddetti «detentori della violenza legittima». Un disegno di umanità, quello dei popoli raccolti nel libro di Montagu, che pone al centro accudimento ed educazione, dove non trova spazio nessun preconcetto su una presunta «natura umana». Esseri umani allo «stato di natura», del resto, in antropologia o paleoantropologia – nell’arco spaziale o temporale delle forme di umanità che sono state finora conosciute – non sono mai stati trovati. Ciò che sappiamo dei gruppi umani antecedenti ai Sapiens (in un arco temporale di centinaia di migliaia di anni) è che si trovavano in uno stato di cultura, non di natura (rituali funerari, focolari domestici, tecniche, linguaggio, etc.). Quando Lévi-Strauss, negli anni Trenta, orienta la sua etnografia sui Nambikwara, è alla ricerca di un gruppo umano che possa avvicinarsi allo «stato di natura» teorizzato due secoli prima da Rousseau. I Nambikwara erano infatti considerati «selvaggi» dagli stessi popoli confinanti, a ridosso della foresta amazzonica. In effetti essi dormivano per terra, sotto ripari di frasche, non intrecciavano nemmeno le amache, un tratto comune dei loro vicini. Tuttavia, a fronte di questa primitività materiale, questo popolo era organizzato con sistemi politici e sistemi di parentela piuttosto complessi. Una celebre foto di Lévi-Strauss, intitolata «intimità», è pubblicata in Tristi tropici: ritrae una famiglia nucleare Nambikwara. A sentire le teorie freudiane (di qualche decennio precedenti alle ricerche di Lévi-Strauss) tra i Nambikwara avrebbe dovuto esserci l’orda primordiale, non la famiglia nucleare (considerata un’evoluzione moderna).
In definitiva, gli antropologi, di una «natura umana» – nel tempo e nello spazio – non hanno trovato riscontro. Una scoperta «in negativo», ma di ampia portata. Non avendo trovato una «natura umana» e dunque non avendola mai potuta osservare né descrivere, a rigore scientifico non se ne dovrebbe parlare. La sociobiologia andrebbe, per questa ragione, considerata una pseudoscienza, o una cattiva scienza, alla stregua del razzismo ottocentesco. Bisognerebbe piuttosto chiedersi a quale scopo, la sociobiologia ha elaborato le proprie retoriche. Retoriche che continuano a essere terribilmente attuali e consolidate, tento che Sahlins ha sentito il bisogno di pubblicare, nel 2008, una sorta di pamphlet, dal titolo particolarmente significativo: The Western Illusion of Human Nature (Sahlins 2010).
Il nesso «guerra», «razzismo», «natura umana violenta» è divenuto oggi più forte che mai. Che sia stato questo lo scopo della sociobiologia, naturalizzarci a questo destino? Un destino grigio, oppressivo, che manda il senso di umanità sotto le scarpe. Quale miglior sistema per sviluppare il più efficace sistema di controllo: costringere gli esseri umani a un depressivo «principio di realtà», dove tutto è prevedibile e inevitabilmente competitivo e violento. Prevedibile, misurabile e quantificabile, nulla sfugge a questa griglia di pensiero.
Negli ultimi decenni l’antropologia culturale ribadisce il suo carattere di disciplina indisciplinata, che non «serve» a niente, nel celebre gioco di parole: non è al servizio di nessun potere, persegue finalità puramente conoscitive, offre uno strumento interpretativo aperto alle diversità umane, in tutti i sensi; scalpita se rinchiusa in ambiti disciplinari e metodologici troppo rigidi, rivendica uno spazio di libero pensiero e di critica alle posizioni essenzialiste e identitarie. Con questo spirito, Clifford Geertz chiama l’antropologia la sua «gaia scienza», François Laplantine teorizza la sua «critica all’identità» e Ulf Hannerz ribadisce il ruolo dell’antropologia come impegno civile e contributo alla «trasparenza della società mondiale» (Geertz 2001: 85; Laplantine 2004: 15; Hannerz 2001: 228).
Assistiamo anche al profilarsi di personaggi «irregolari» tra i più influenti antropologi contemporanei. Nel 2016 Michael Taussig si entusiasma per la causa dei curdi, che per la prima volta nella storia rivendicano il loro diritto a esistere senza immaginarsi nella forma di uno stato nazione (Dirik, Levi Strauss, Taussig, Wilson 2017). «Sembra la Spagna del 1936», dirà a una conferenza, «e sta succedendo ora».
Tim Ingold, altro tra i più importanti antropologi contemporanei, nella sua ultima opera prende una deriva decisamente poetica, fuori da tutti gli schemi accademici (Ingolt 2021).
Dunque quando David Graeber teorizza esplicitamente la sua antropologia anarchica, segna un punto di arrivo di un processo che si è snodato in un arco temporale di oltre mezzo secolo. Graeber recupera riferimenti anche più antichi di antropologi anarchici e ci ricorda che la sociobiologia tentò anche di «rimediare», in senso retrivo, alla corrosiva critica che nell’Ottocento Kropotkin aveva portato, da scienziato, al darwinismo sociale (Graeber 2006: 21).
Graeber ci riporta anche a uno degli aspetti più attrattivi dell’antropologia culturale (dalla prospettiva ampia di lettori e lettrici), quello della fascinazione per l’esotico: quando ci racconta l’utopia libertaria dei pirati nel Madagascar del 18° secolo (Graeber 2020). Al di là della fascinazione, in questo libro Graeber ribalta i luoghi comuni della Storia, mostrando quanto fu originale e importante ciò che accadde in uno scenario lontanissimo dell’Europa, con il protagonismo di un soggetto completamente «fuori dai nostri radar» colonialisti e maschilisti, quello delle donne malgasce che accolsero i pirati nelle loro comunità.
Anche il Manifesto di Losanna (Saillant, Kilani, Graezer Bideau 2012) presenta l’antropologia culturale come una sorta di pietra di inciampo, in un mondo dominato dalle leggi di mercato, dal riduzionismo, dalla ricerca costretta nei tempi di un rapid appraisal, piegata quasi esclusivamente sui dati quantitativi o sui «big data» tratti dai social network.
Si riapre dunque, in tempi nei quali la tecnologia ha raggiunto uno dei massimi livelli di saturazione del reale, l’interrogativo sui «saperi umanistici» e, in senso ampio sulla crisi umanitaria. Ci scherzava Edgar Morin, nel secolo scorso, sull’Homo sapiens – demens. Oggi, con Edgar ancora tra noi, ci siamo arrivati in pieno.
«Girano le carte», scriveva Lévi-Strauss in una celebre metafora di Razza e storia, e ogni tanto qualcuno si ritrova per le mani un poker d’assi. Che sia questa la volta per un’antropologia anarchica, non egemonica, detentrice di un antico ideale umanistico mai sopito, che torna drammaticamente alla ribalta nella crisi attuale? O sono invece gli antropologi anarchici gli estremi custodi dell’utopia di una Gaia scienza?