Anarchismo senza nome. Lezioni dalla città di Cherán
In una piccola città messicana, i residenti indigeni hanno creato una comunità nuova, democratica e in gran parte pacifica. La domanda è: cosa possiamo imparare dai loro risultati?
Murray Bookchin, nella sua opera fondamentale nel campo dell’ecologia sociale, L’ecologia della libertà, ha criticato la tendenza della storia a concentrarsi sulla «conquista del potere» e sugli imperi con i loro «templi, obitori e palazzi» – luoghi che «evocano la nostra radicata soggezione al potere». Le conseguenze di questo atteggiamento, per Bookchin, sono molto chiare:
Tragicamente, quest’ombra ha oscurato in gran parte la tecnica dei contadini e degli artigiani alla «base» della società: le loro reti diffuse di villaggi e piccole città, le loro fattorie e i loro orti domestici, le loro piccole imprese, i loro mercati organizzati intorno al baratto, i loro sistemi di lavoro altamente mutualistici, il loro acuto senso della socialità e i loro mestieri deliziosamente individuati, gli orti misti e le risorse locali che fornivano il vero sostentamento e le opere d’arte della gente comune.
Gli scritti dei normali libri di storia dipingono un quadro dell’umanità piuttosto desolante per un anarchico o un socialista libertario. Dai regni in competizione del periodo degli Stati Combattenti in Cina (475-221 a.C.), alla «corsa all’Africa» degli imperi coloniali (1881-1914 circa), gli annali dell’umanità sembrano inondati dall’adorazione o dalla sottomissione ai grandi palazzi del potere. Ma è al di sotto di questi grandi palazzi che possiamo trovare la storia veramente anarchica che desideriamo, una storia di «convenzioni umane di base, solidarietà comunitaria e cura reciproca» che tende a scavalcare le varie differenze e ad agire a livello comunitario, nonostante i «vertici politici o quasi-politici» (Bookchin). In altre parole, a prescindere dalla persona che siede sul trono, ai suoi piedi c’è una rete di villaggi e cascine di tipo comunalistico e mutualistico. Questo non significa che tutte le società fossero centralizzateo guidate da figure potenti. In effetti, se si guarda al di là dei libri di storia standard, si trova una vasta gamma di storia umanache è governata in modo comunalistico e molto democratico, sianelle tribù confederate degli Irochesi, sia nei villaggi comuni diSulawesi, in Indonesia. Nonostante ciò che molte storie occidentali vorrebbero farci credere, la democrazia non è un’invenzionedegli antichi ateniesi, ma una tradizione globale che risale a centinaia, se non migliaia, di anni fa. La riluttanza a insegnare questo al pubblico occidentale è spiegata bene da David Graeber:
La vera ragione della riluttanza della maggior parte degli studiosi a considerare «democratico» un consiglio di villaggio di Sulawezi o di Tallensi – ebbene, a parte il semplice razzismo, è la riluttanza di ammettere che coloro che gli occidentali hanno massacrato con una tale relativa impunità fossero al livello di Pericle.
In definitiva la differenza tra la democrazia di queste tradizioni e quella della politica moderna è l’atto stesso del voto. Il consenso era il metodo democratico preferito da queste società e, come scrive Graeber, possiamo trovare «più e più volte» comunità egualitarie «in tutto il mondo, dall’Australia alla Siberia» che lo utilizzavano. Perché, si chiede, «in una comunità faccia a faccia è molto più facile trovare un accordo su ciò che la maggior parte dei membri della comunità vuole fare» e perché, come è tipico di queste società, «non ci sarebbe modo di costringere una minoranza a concordare con una decisione della maggioranza». La mancanza di una forza monopolistica significa che non c’è il potere di costringere le persone ad accettare le decisioni e quindi, naturalmente, si deve ricorrere a un metodo democratico che coinvolga tutti i membri della comunità. La mancanza di un sistema di voto simile a quello dei Greci o delle nostre società moderne può aver portato gli storici a ignorarla, ma state certi che la democrazia non è un’eccezione nella storia, bensì spesso (almeno a livello locale) la regola.
Queste tradizioni hanno influenzato anche il pensiero di due anarchici nigeriani, Sam Mbah e I.E Igariwey, che nella loro opera comune, African Anarchism: The History of a Movement, affermano che mentre l’anarchismo «come astrazione può essere remoto per gli africani», le pratiche anarchiche «non sono affatto sconosciute come stile di vita». La società africana era per lo più comunalista, perché «si creava una simbiosi tra gruppi che si guadagnavano da vivere in modi diversi». La loro organizzazione politica, basata su riunioni e incontri decentrati, non rifletteva in alcun modo i sistemi centralizzati sviluppatisi altrove nel mondo. Come scrivono:
Questi incontri e riunioni non erano guidati da leggi scritte, perché non ne esistevano. Si basavano invece su sistemi di credenze tradizionali, sul rispetto reciproco e sui principi indigeni di legge naturale e giustizia.
Sono queste tradizioni storiche che possono fungere da raggi di sole nelle nostre immagini altrimenti desolanti del futuro. Se nel mondo ci sono pratiche anarchiche che esistono da più tempo del nostro inferno capitalistico, allora dobbiamo solo riaccendere quelle pratiche. Non dobbiamo necessariamente costruire una nuova utopia apparentemente aliena, dobbiamo solo incoraggiare i valori umani che precedono la nostra attuale distopia. O, per dirla con le parole del filosofo taoista del III secolo Bao Jingyan, dobbiamo solo tornare indietro a un momento prima che i nostri cuori diventassero «ogni giorno più pieni di disegni malvagi».
Che ruolo ha Cherán in tutto questo?
San Francisco Cherán, nome completo, è una comunità indigena dello stato di Michoacán, in Messico. Tormentati dalle attività criminali, dal disboscamento illegale e dai «continui intrighi» dei partiti politici locali, gli stanchi abitanti di Cherán si sono riuniti il 15 aprile 2011 per prendere in mano la situazione. Hanno cacciato rapidamente i taglialegna illegali che stavano distruggendo le loro risorse naturali, ma quando hanno finito si sono rivolti contro le autorità municipali e alle forze dell’ordine che li stavano deludendo. Cacciando anche loro, la popolazione di Cherán è arrivata a istituire una «assemblea generale comunitaria», costruita dal basso da assemblee istituite nei quartieri locali. Le loro ragioni sono state spiegate bene da un abitante del luogo, Josefina Estrada, al «Los Angeles Times»:
«Non potevamo più fidarci delle autorità o della polizia, non sentivamo che ci proteggevano o ci aiutavano. Li vedevamo come complici dei criminali».
La pace e la sicurezza che ciò ha portato ai residenti di Cherán è incredibile.
Lo stato che li circonda aveva avuto in un anno 180 omicidi in un mese, mentre ora l’unico vero crimine della città sono le risse tra ubriachi o la guida in stato di ebbrezza. I trasgressori devono passare un po’ di tempo a smaltire la sbornia dietro le sbarre o a fare lavori socialmente utili, ma raramente la punizione va oltre. Anche il loro bilancio politico, rispetto a quello di gran parte del Messico, è molto ammirevole: i membri dei consigli sono pagati con stipendi modesti e sono chiamati a rispondere del loro operato da assemblee democratiche.
Inoltre negli anni precedenti alla rivolta, circa la metà dei 59.000 ettari di foresta di Cherán è stata abbattuta illegalmente, ma ora, con la scomparsa dei taglialegna e il regolare pattugliamento del territorio, sono ben difesi. Anche il significato di questo risultato è spiegato in un’intervista al «Los Angeles Times»:
«Queste foreste sono la nostra essenza, ci sono state lasciate dai nostri antenati per essere protette e nutrite», ha detto Francisco Huaroco, 41 anni, membro della pattuglia forestale, mentre con una squadra camminava accanto a ceppi che testimoniavano i precedenti saccheggi. «Senza questi boschi, la nostra comunità non è completa, non è se stessa».
Questi meravigliosi sviluppi dovrebbero ispirare qualsiasi persona di sinistra e potrebbero portare alcuni a chiedersi: che tipo di influenza di sinistra si può trovare a Cherán? Questa è una domanda importante, ed è altrettanto importante, nel rispondere a questa domanda, sottolineare l’influenza della cultura indigena di Cherán nella creazione della nuova comunità. Come affermato in un articolo su « Open Democracy»:
La comunità di Cherán occupa questo territorio da prima del processo di colonizzazione. Ha conservato le proprie istituzioni per organizzarsi nella sfera politica, culturale, economica e sociale e questo ha avuto riflesso sulle sue dinamiche sociali. Gli abitanti della municipalità hanno combinato le proprie pratiche con la legge nazionale, in un regime di doppia legge.
Sebbene la città abbia certamente avuto influenze socialiste (come si può vedere nei murales del rivoluzionario messicano Emiliano Zapata), non sembrano esserci in vista alcuna insurrezione marxista, avanguardia comunista o agitatori anarchici. Non ci sono bandiere rosse o nere che sventolano in testa a questo movimento, ma solo volti di persone del posto che hanno pensato che «quando è troppo è troppo». E sebbene possano essere stati ispirati dalle rivoluzioni del mondo, passate e presenti, sono stati la loro cultura indigena, le loro tradizioni e il loro luogo di vita a dare corpo allaribellione e a gettare le basi per una nuova comunità. Cherán ha effettivamente ricevuto il sostegno della sinistra radicale di tutto il mondo, ma sono i gruppi locali come il Colectivo Emancipaciones, un gruppo per i diritti degli indigeni dell’America Latina, ad aver dato loro il sostegno più significativo.
Ci sono due lezioni significative che potremmo imparare da comunità come Cherán:\
- Che dobbiamo mantenere viva la speranza nel nostromondo apparentemente triste e non rivoluzionario. Momenti come questi rafforzano la convinzione anarchica che gli esseri umani possono essere, alla radice, anarchici. Con questo intendo dire che gli esseri umani, in quanto persone locali, ispirate da tradizioni, comunità e culture locali, si sforzeranno di governare se stessi e, per estensione, di porre fine alle miserie dello Stato capitalista.\
- Che un movimento non ha bisogno di sventolare una bandiera anarchica per realizzare ideali anarchici. Se crediamo veramente che l’umanità sia, alla radice, capace di raggiungere l’anarchia, allora non abbiamo bisogno di imporre o pretendereche i movimenti si conformino ai nostri standard. Se crediamo veramente che le società umane, se ne hanno l’opportunità, tenderanno a un modo di vivere comunitario, allora non c’è bisogno di stare in giro a imporre o a controllare l’azione rivoluzionaria, ma dobbiamo solo di cercare di ispirarla e sostenerla.
Pensando a Cherán, proporrei di essere il vero «radicale», come teorizzato da Paulo Freire in una prefazione alla sua opera La pedagogia degli oppressi:
Questa persona non si considera il padrone della storia o di tutti i popoli, né il liberatore degli oppressi; ma si impegna, all’interno della storia, a combattere al loro fianco.
L’incredibile lavoro di Freire è caratterizzato dall’idea che si debba sviluppare una «educazione al problema», che incentri il processo di apprendimento sulle condizioni materiali di chi apprende, o in altre parole, sul «qui e ora». Come scrive:
Il punto di partenza del movimento è l’uomo stesso. Ma poiché le persone non esistono al di fuori del mondo, al di fuori della realtà, il movimento deve partire dalla relazione uomo-mondo. Di conseguenza, il punto di partenza deve essere sempre l’uomo e la donna nel «qui e ora», che costituisce la situazione in cui sono immersi, da cui emergono e in cui intervengono.
La prima riga di questa citazione è significativa in questo caso, perché a Cherán è proprio vero che il movimento è partito dal popolo stesso. I legami sociali locali, il patrimonio e la comune umanità hanno fornito le basi per la loro nuova società. È stato quindi solo lo sviluppo di una comprensione dei mali del capitalismo e delle sue cause che ha portato a quel meraviglioso giorno del 15 aprile 2011. A noi radicali non resta che porre la domanda: «Perché le cose devono andare così?» e, se necessario, offrire gli strumenti per cambiarle. Ciò che è importante, tuttavia, è che abbiamo fiducia che il popolo organizzi e sviluppi da solo la propria liberazione. L’educazione è parte integrante, ma non è un’interferenza. Possiamo cercare di piantare un seme, ma non dobbiamo determinare come crescerà la pianta.
Se il tipo di tradizioni di cui hanno parlato Bookchin, Graeber, Mbah e Igariwey, combinate con l’influenza del pensiero e delle pratiche rivoluzionarie di altre parti del mondo, hanno portato alla ribellione di Cherán, allora possiamo aspettarci che molte ribellioni simili possano seguire. Il compito del radicale, quindi, non è quello di cercare di prendere il controllo di un movimento, né di «imporre la propria parola» su di esso (per usare la frase di Freire), ma di impegnarsi con le persone, ispirarle e lottare con loro, non per loro o al posto loro. Quello che possiamo chiamare o percepire come un movimento anarchico può non considerarsi necessariamente tale, ma questo non lo rende meno degno del nostro sostegno. Ciò che vediamo a Cherán è il popolo che prende in mano la propria liberazione, un atto che dovrebbe riempirci di speranza.
Traduzione di Marco Antonioli
The Anarchist library, 21 giugno 2020