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Albert Camus

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Camus nasce nel 1913 ad Algeri, da una famiglia di pied-noirs (i Francesi d’Algeria) per nulla benestante, quando l’Algeria è una colonia francese; lo sarà fino all’ottenimento dell’indipendenza, dopo una cruenta guerra di liberazione di otto anni, nel 1962. Ma Camus muore due anni prima, prematuramente, in un incidente stradale, in un periodo in cui sta scrivendo il romanzo autobiografico Il primo uomo, rimasto incompiuto ed edito recentemente da Bompiani. Figlio di operai, orfano giovanissimo di padre, con una madre analfabeta, riesce a studiare solo grazie all’aiuto del suo maestro elementare: diventerà uno dei maggiori intellettuali libertari del Novecento. Coscienza critica dell’Occidente, intellettuale engagé, attivo politicamente ma non incorporato nella politica istituzionale, parteggia per i repubblicani nella guerra civile spagnola del 1936-1939, partecipa attivamente alla Resistenza francese ed è caporedattore del quotidiano «Combat», organo clandestino della Resistenza stessa, collabora con diverse testate della sinistra libertaria. È critico nei confronti dell’Unione Sovietica dominata dallo stalinismo che ritiene lesivo della libertà e dei diritti più basilari. Autore di romanzi, Lo straniero (1942), La peste (1947), col quale ottiene un vasto riconoscimento di pubblico, La caduta (1956); di opere teatrali tra le quali Il malinteso (1944), Caligola (1945), Lo stato d’assedio (1948), I giusti (1949); di saggi come Il mito di Sisifo (1942), L’uomo in rivolta (1951), Riflessioni sulla ghigliottina (1957); nel 1957 riceve il premio Nobel per la letteratura per avere saputo esprimere come scrittore «i problemi che oggi si impongono alla coscienza umana». È un esistenzialista, in quanto la sua riflessione si concentra sul senso dell’esistenza umana nel mondo, in un’Europa figlia della grande crisi 1915-1945, in cui le due guerra mondiali e i totalitarismi hanno decretato la fine traumatica delle grandi narrazioni ottocentesche: l’idealismo e il positivismo. In Camus troviamo riferimenti ad autori e filosofi che via via si sono interrogati sulle problematicità dell’esistenza umana tra cui Dostoevskij, Kafka, Tolstoj, Joyce, Proust, Stendhal ma anche Schopenhauer, Nietzsche, Pascal e Spinoza.

La fatica di Sisifo

Il 1942 è l’anno di pubblicazione de Lo straniero e de Il mito di Sisifo. Il tema comune alle due opere, una romanzo, l’altra saggio, è l’assurdo: l’esistenza umana è assurda, vorrebbe idealmente il bene, ma si ritrova a fare il male. Il bene – l’Idea, l’ideale – e i fatti non collimano, non coincidono, anzi sono divergenti. Assurdo significa irragionevole: «il mondo, in sé, non è ragionevole […] è assurdo» (Camus 2017: 21). Sisifo è l’eroe mitologico che per avere ingannato due volte la morte è condannato dagli Dei a spingere un masso in cima a una rupe; una volta raggiunta la sommità il masso rotola giù nuovamente. Sisifo sa che avverrà questo, che il suo sforzo sarà frustrato, ma non può fare a meno di ricominciare a spingerlo. È «l’eroe assurdo» (Camus 2017: 118). Nel Sisifo di Camus non c’è, però, disperazione. L’uomo assurdo non è disperato, ha voglia di vivere nella consapevolezza che la vita è «rivolta», è una «battaglia permanente». «Vivere è dar vita all’assurdo. Dargli vita è innanzitutto saper guardarlo […]. Così una delle sole posizioni filosofiche coerenti è la rivolta, che è un perpetuo confronto tra l’uomo e la sua oscurità» (Camus 2017: 50).La precedente filosofia esistenzialista, dice Camus, non è riuscita ad accettare fino in fondo il fatto che l’esistenza sia assurda e ha trovato una soluzione nella fede o nell’ideologia. L’assurdo, invece, non ha soluzione, è costitutivo del vivere umano e va affrontato con l’indignazione e l’impegno, che non risolvono l’assurdo se non parzialmente, marginalmente, temporaneamente. Ma ciò è la ragione di vita di Sisifo, dell’essere umano quindi.Camus conclude l’opera con queste parole: «Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice» (Ca- mus 2017: 121). Partendo da una premessa nichilista – la vita è assurda, non ha senso – finisce celebrando la vita, il qui e ora, la forza del presente.

L’uomo in rivolta

Il romanzo La peste apre il Ciclo della rivolta. Pubblicato nel 1947, La peste ottiene grande successo di vendite e di critica. La città di Orano, in Algeria, è colpita da un’epidemia di peste; in questa crisi – che simboleggia la crisi della civiltà, del mondo – il protagonista, il medico Bernard Rieux e il suo amico Jean Tarrou, si adoperano per affrontare il male facendo opera di intervento e di solidarietà verso i contagiati. Organizzano delle «formazioni sanitarie volontarie» (Camus 2019: 131) fuori dalle istituzioni ritenute lente, burocratiche, inefficienti: «in una maniera o nell’altra, bisognava lottare e non mettersi in ginocchio» (Camus 2019: 145). L’opera centrale del Ciclo della rivolta, a cui appartiene anche I giusti, è L’uomo in rivolta, saggio del 1951 e lavoro fondamentale di Camus. La prima parte, breve, intitolata proprio L’uomo in rivolta, è folgorante: «Mi rivolto dunque siamo». L’uomo in rivolta è un uomo «che dice no» (al male nel mondo, all’ingiustizia) e però «non rinuncia» (Camus 2005: 17), dice sì a una rivolta etica, esistenziale, solidale e non egoistica. La rivolta è il mezzo attraverso cui si esprime la solidarietà tra gli uomini, si realizza la condizione umana. Nella seconda sezione intitolata La rivolta metafisica viene analizzato il pensiero di coloro i quali hanno negato dio come padrone, in un lungo percorso che ha aperto la strada a Nietzsche e alla sua rivolta contro la morale tradizionale attraverso cui l’uomo si fa egli stesso dio. Una rivolta, quella metafisica, importante, ma che può portare quindi a conclusioni nefaste e liberticide. Nella terza sezione, intitolata La rivolta storica, studia le teorie e le pratiche di rivoluzione e di rivolta nella storia. Egli difende la rivolta, la sua necessità, e giudica negativamente la rivoluzione, guardando con occhio critico al marxismo. «Tutte le rivoluzioni moderne si sono concluse con un rafforzamento dello Stato. Il 1789 porta a Napoleone, il 1848 a Napoleone III, il 1917 a Stalin, i disordini italiani intorno al ’20 a Mussolini, la repubblica di Weimar a Hitler» (Camus 2005: 196). Il pensiero di Marx è criticato principalmente su due versanti: innanzitutto per il fatto che la rivoluzione debba modificare tutta la società – cioè la socializzazione deve riguardare tutti gli ambiti a partire dai mezzi di produzione non lasciando nessun margine alla sperimentazione di altre modalità di produzione e proprietà – e sia quindi un cambiamento totale; in secondo luogo la rivoluzione che porta al comunismo è determinata dallo sviluppo storico ed è La Soluzione, l’unica soluzione, il fine supremo dell’umanità. Questa duplice visione è debitrice nei confronti di Hegel, che considera la comunità sociale e politica sempre nel suo complesso, cioè secondo una concezione organicistica, o totale, in cui l’uomo è solo un tassello. Inoltre tale totalità è frutto di un divenire storico necessario. Contro ciò Camus valorizza l’aspetto libertario e liberatorio della rivolta, plurale (non unica), mai conclusa e imprevedibile (non determinata). La rivolta, a differenza della rivoluzione, non è totale, non tende all’assoluto; è relativa, non dice «tutto è necessario» ma «tutto è possibile» (Camus 2005: 317). La rivolta è la volontà di non subire e si propone di «diminuire […] il dolore del mondo» (Camus 2005: 331), perché, come aveva chiarito nella conferenza La crisi dell’uomo del 1946, egli non crede possibile realizzare la felicità universale. La rivolta non è libertà estrema, non è libertà di uccidere (Camus 2005: 310): «la libertà senza limiti è il contrario della libertà […], è quella dei tiranni» (Camus 2020: 209). Se il socialismo quale si è concretizzato con le rivoluzioni del Novecento ha confiscato la libertà concreta, presente, in nome di una libertà ideale, a venire (Camus 2005: 238), contravvenendo a ogni moralità, è necessario allora rivendicare una libertà che rispetti la libertà altrui, che sia libertà di tutti. La rivolta, che è vita, è felicità, reclama libertà per tutti. Perché, come scrive nel Caligola del 1940, «nessuno può salvarsi da solo e non si può essere liberi contro gli altri uomini» (Camus 2018b: 10). Il suo rifiuto dell’assoluto è coscienza dei limiti dell’uomo, è consapevolezza che sia possibile agire – rivoltarsi – nella concretezza, nella quotidianità. È anche rivendicazione del ruolo dell’etica: alla base della prassi politica vi devono essere dei limiti morali. Non tutti i mezzi sono consentiti per ottenere un fine, per quanto nobile esso sia. C’è quindi un rifiuto del male, della menzogna, un’affermazione dell’onestà, della dignità, della libertà dal conformismo, dai pregiudizi, dalle ideologie assolute; con Camus torna al centro l’etica, il senso di giustizia, a cui la politica è subordinata: «la coscienza nasce dalla rivolta» (Camus 2018: 10).

Il seme sotto la neve

L’uomo in rivolta gli procura l’ostilità di Jean-Paul Sartre e della rivista «Les Temps Modernes», portavoce della sinistra marxista. È una divergenza ideale e politica. Camus, ventenne, è membro del Partito comunista algerino solo per due anni (1935-1937), perché la forma partito e l’ideologia marxista sono per lui due gabbie. In quegli anni, come si diceva, parteggia per i repubblicani spagnoli, poi dà il contributo alla Resistenza al nazifascismo. Si schiera, quindi, a sinistra vedendovi il luogo della dignità, ma contro il socialismo di Stato, e in particolare l’URSS, difeso, seppure con dei distinguo, da Sartre. Agisce fuori dai partiti e dai governi, al fine di creare «comunità di riflessione che avvieranno il dialogo tra le nazioni e affermeranno con la vita e le parole di ciascuno che questo mondo deve cessare di essere quello dei poliziotti, dei soldati e del denaro per diventare quello dell’uomo e della donna, del lavoro fecondo e del tempo libero meditato […]. Proprio perché il mondo è intrinsecamente infelice, dobbiamo fare qualcosa per la felicità, proprio perché è ingiusto, dovremo agire per la giustizia; e infine proprio perché è assurdo dobbiamo dargli tutte queste ragioni» (Camus 2020: 46-47). Nell’epoca della guerra fredda non si schiera né con il blocco atlantico né con quello sovietico, cercando insistentemente una terza via. Sostiene la lotta antifranchista costretta alla clandestinità, si batte per l’abolizione della pena di morte, denuncia la necessità di abbandonare la volontà di potenza, che assume le forme dell’imperialismo e dell’espansionismo, dovunque si palesi, e di combattere tutti i tiranni. Cerca alleati, amici, compagni in questo suo fare, che non è egoistico o solipsistico. Protesta contro l’intervento delle truppe sovietiche nel giugno 1953 a Berlino est per sedare una rivolta operaia contro la decisione del governo di aumentare l’orario di lavoro che provoca circa cinquanta morti (Camus 2020: 181-187). Lo stesso fa nel ’56 quando il governo polacco, aderente al blocco sovietico, reprime nel sangue uno sciopero degli operai metallurgici di Poznán. Una manifestazione di centomila persone viene affrontata armi alla mano dalla forza pubblica e ci sono circa cinquanta morti e centinaia di feriti (Camus 2020: 263-267). Ancora, sempre nel ’56, dà voce alle ragioni del movimento di contestazioni che scuote l’Ungheria, contro cui interviene l’Armata rossa, in accordo col Partito comunista ungherese. Il 4 novembre i carri armati entrano a Budapest: ci sono circa 2500 morti e duecentomila ungheresi saranno costretti all’esilio (Camus 2020: 279-282). «Coloro che […] non vogliono né soffrire né possedere strumenti di oppressione, che vogliono la libertà tanto per se stessi quanto per gli altri, costoro, in un secolo condannato dalla miseria o dal terrore alla follia dell’oppressione, sono i semi sotto la neve di cui parlava uno dei più grandi di noi [cfr. Ignazio Silone, Il seme sotto la neve, 1940]. Passata la tempesta, il mondo si nutrirà di quei semi», afferma in una conferenza del 1955 riprodotta dalla rivista libertaria «La Révolution Prolétarienne» (Camus 2020: 239).